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L’Avvocato tributarista e l’Impresa: consulenza, compliance, litigation

Avv. Antonio Damascelli

Ordinamento tributario, riforme e professione

L’Avvocato tributarista e l’Impresa: consulenza, compliance, litigation

Desidero affacciarmi in punta di piedi e svolgere qualche riflessione di carattere generale su come si possa seriamente ipotizzare una forma di compliance e di consulenza a medio, non a lungo, periodo in un sistema di governo che riempie il tempo della propria esistenza e utilizza il tema dell’evasione fiscale nell’incapacità di mettere mano a un disegno di riforma organica da tutti invocata. Non voglio sostenere che l’evasione come fenomeno non esista ma affermare che non può essere un alibi per non creare le condizioni (crescita) perché essa si riduca o non assuma le misure così eclatanti in una cornice di economia stagnante. Non può essere un alibi per non por mano a riforme di ampio respiro e di carattere unificante. Nel 2014 la legge delega n. 23 aveva intravisto delle prospettive generali per il sistema tributario. E’ rimasta, purtroppo, lettera morta, al pari del libro bianco di Tremonti datato 1994, in cui, poteva piacere o non piacere, era delineato un quadro di riforma organico. Probabilmente l’unica riforma di sostanza e di respiro, dopo quella di Vanoni, è stata quella del 1972 e del 1973. La lotta all’evasione fiscale e l’inasprimento delle sanzioni sono così diventati nel tempo slogan che nascondono l’incapacità di programmare una politica fiscale di contenuti, in modo che il potere ha crea alibi a se stesso. Non solo questo obiettivo è demagogico ma è anche di corto respiro perché se serve a recuperare fasce di evasione, ammesso che sia così, in sostanza omette di promuovere un circolo virtuoso che deve necessariamente partire da obiettivi di crescita dell’economia, quale presupposto minimo, perché gli investimenti creano ricchezza. Col 2018 siamo arrivati alla terza recessione dai tempi della crisi e non si intravedono luci all’orizzonte. Consapevole del camuflage, i governanti si rifugiano nella distinzione tra grandi e piccole evasioni, senza spiegare in cosa consista la loro differenza e trascurando volutamente che anche piccole evasioni (penso all’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti di minimo importo) sono sanzionate e obbligano il P.M. a promuovere l’azione penale. Predisporre una pianificazione fiscale da parte dei contribuenti, o almeno di una categoria, diventa un esercizio acrobatico. Lo stato farraginoso della legislazione e l’imprevedibilità delle decisioni giurisprudenziali richiede, quindi, agli avvocati una preparazione quotidiana, approfondita e plurisettoriale (abbracciando trasversalmente il diritto amministrativo e quello penale) quale migliore garanzia a tutto tondo in favore delle imprese e di tutti i contribuenti. E’ possibile, a questo punto, formulare delle ipotesi costruttive e avanzare proposte che tendano alla stabilità del sistema fiscale e consentano all’impresa e all’avvocato di programmare un’iniziativa che non impatti con le necessità di periodo?

Quali sono gli indirizzi operativi strategici dell’A.F?

● Recuperare il gettito quanto più possibile

● Creare le condizioni migliori per una deterrenza adeguata

Secondo alcuni studi (riportati da V. Visco in “Colpevoli evasioni", Univ. Bocconi Editore, 2017) la presenza dei consulenti aumenterebbe l’evasione, in quanto essi diventano parte attiva del rapporto tra contribuenti e Fisco. Si vuol dire che la funzione di intermediazione porta il consulente a percepire ogni inasprimento di sanzioni come trasferimento di costi dall’Amministrazione ai contribuenti così che essi tenderebbero a tenere comportamenti più aggressivi verso il Fisco, come se esso avesse rotto equilibri impliciti in vigore. Poiché in sede di confronto si perverrà ad un accordo con l’autorità agenziale e le imposte tenderanno ad essere inferiori all’accertato, il loro apporto risulterà apprezzato dai contribuenti. Trattasi di una visione tanto indimostrata quanto malevola. E’ decettiva per la funzione in sé del consulente e contraddittoria nella misura in cui è lo stesso Stato a richiedere la compliance. Una compliance che richiede al professionista un’intensità di interventi sempre più onerosa. La strada sbagliata per recuperare l’evasione è l’inasprimento delle sanzioni: la legge sulle manette agli evasori (L. 516/82) provocò un intasamento degli uffici giudiziari né miglior sorte ha avuto l’attuale decreto 74/2000. Diventa allora importante agire capendo come si determina l’evasione e quanta parte abbia:

- l’economia sommersa.

Infatti, la presenza del sommerso dimostra che il reddito nazionale è maggiore di quello che risulta dalla contabilità nazionale. Ai fini statistici si sono sempre tenuti fuori convenzionalmente, ai fini del calcolo del sommerso, le attività illegali (droga, contrabbando, prostituzione, estorsione, traffico di armi etc.) che producono altissimi fatturati. Ma solo dal 2014 si è deciso a livello europeo di includere nel PIL anche l’economia illegale basata sul concetto di consenso volontario (commercio stupefacenti, prostituzione contrabbando sigarette), escludendo quei proventi derivanti da atti non consensuali, pur dovendosi convenire che gran parte dei proventi di derivazione criminale (tangenti, estorsione) hanno effetto redistributivo e non provocherebbero un incremento di prodotto;

- il lavoro irregolare (sommerso o informale).

Molti lavoratori che risultano disoccupati in realtà non lo sono perché svolgono l’attività in modo discontinuo o a tempo parziale. Si può risalire alla vera occupazione e disoccupazione e calcolare il reddito aggiuntivo prodotto nel lavoro sommerso. In base alle stime di alcuni economisti il lavoro irregolare rappresenta in Italia percentuali rilevanti della forza lavoro tra il 10% e il 25%. Secondo recenti valutazioni Istat una percentuale di circa il 40% del totale dell’economia sommersa deriverebbe dal lavoro nero.

- le variazioni della domanda del circolante rispetto alla domanda di moneta complessiva.

Sono stati studiati vari metodi per calcolare l’entità dell’eccesso di circolante rispetto a quella considerata normale per arrivare alla stima dell’economia sommersa. Il metodo più utilizzato è quello di prendere atto che la domanda di circolante e le sue variazioni dipendono da diversi fattori e cercare di stimare econometricamente l’influenza nel tempo del solo fattore fiscale. Si ritiene che la crescita dell’economia sommersa dipenda dalla tassazione e quindi si cerca di isolare il fenomeno inserendo una variabile fiscale nella stima econometrica dell’equazione di domanda di moneta. La circostanza che l’unica determinante dell’economia sommersa sia data dal livello delle imposte implica che l’economia sommersa coincide con l’evasione fiscale. In realtà le cause del sommerso sono numerose e vanno esaminate congiuntamente. La struttura industriale del Paese: si sostiene che la prevalenza delle piccole imprese renderebbe più agevole l’evasione. Se fosse vero sarebbe difficile spiegare il fenomeno in considerazione che il 90% del sistema produttivo italiano è costituito da imprese con meno di 10 dipendenti . In questa direzione (piccole imprese) va lo sviluppo dei servizi alle persone (palestre, cure estetiche, assistenza familiare) caratterizzati da scarso investimento di capitali. Analogamente lo sviluppo della new economy aumenta le difficoltà di rilevazione da parte delle p.a., rimediabili con la tecnologia (tracciabilità di ordini e pagamento). Nuovi studi ritengono che l’economia sommersa sia una variabile non osservabile direttamente mentre è necessario servirsi di metodi statistici propri della ricerca sociale diversi dall’economia. Sono i metodi Mimic (Multiple Indicators Multiple Causes) basati su diverse variabili causali (pressione fiscale, livello di regolamentazione, tasso di disoccupazione, rilevanza dei lavoratori autonomi, il grado di libertà economica, la morale fiscale) e come variabili di misurazione la domanda del circolante e la variazione dei tassi di partecipazione nel mercato del lavoro: I risultati di 143 Paesi (fonte V.Visco, "Colpevoli evasioni", Univ. Bocconi Editore):

● Nel periodo considerato (1996-2014) l’economia sommersa è risultata in media alquanto elevata: 32,5% del PIL;

● Le dimensioni sono diminuite dal 1996 (34,82%) al 30,66% (2014);

● Tra i Paesi del G7 l’Italia mostra il livello di economia sommersa di gra lunga più elevato. 26,35% del PIL rispetto al 15,8% del Canada, 14,7% della Germania, 14,2% Francia, 12,8% Regno Unito, 10,8% Giappone e 8,2% Stati Uniti. Dal 1995 tutti i Paesi UE sono obbligati ad inserire l’economia sommersa nel calcolo del PIL secondo criteri omogenei. L’Istat ha anticipato al 1987 questa decisione.

L’Istat utilizza due sistemi di calcolo:

● stima l’entità del lavoro nero e del reddito derivante mettendo a confronto i dati provenienti da fonti diverse (famiglie dal lato dell’offerta e imprese dal lato della domanda di lavoro)

● corregge le sotto dichiarazioni del fatturato e la sovrastima dei costi per verificarne la coerenza per categorie omogenee per settore e dimensioni. Quindi, stima il valore aggiunto dell’impresa:

ricavi - costi diretti - ammortamenti - interessi passivi - costo del lavoro = stima profitto o compenso dell’imprenditore

Questa proceduta, applicata prima alle imprese con meno 20 dipendenti, è stata estesa a soggetti con + 20 dipendenti.

Le due componenti rappresentano più dell’80% della stima complessiva di Istat di cui:

● il 47% è riferibile alla rivalutazione del fatturato

● il 35% al lavoro irregolare

● La restante parte derivano per circa il 9% da aggiustamenti statistici derivanti dal fatto che i dati relativi alla domanda dei beni e servizi non coincidono con quelli dell’offerta. Tale discrepanza non è tipica dell’Italia e si ritiene che l’eccedenza dipenda dal fatto che i redditi prodotti dal sommerso si traducono in domande di beni e servizi e quindi la domanda aggiuntiva va considerata ai fini di una stima corretta del PIL;

● l’8% deriva da attività illegali.

La rilevanza del sommerso in Italia (fonte V. Visco ) tocca i 194 miliardi pari al 12% del PIL.

Le ricadute ulteriori e il Tax Gap

Il Tax Gap è un indicatore che riflette il peso dell'evasione fiscale per le casse dello Stato. Si misura come il rapporto tra tasse evase e gettito fiscale. In Italia il tax gap vale il 23,29% delle entrate fiscali dello Stato, il quarto valore più alto in Europa dopo Romania, Grecia e Lituania. L'economia italiana non osservata - vale a dire l'indotto derivato da attività clandestine, illegali o informali - è in crescita dell'1,5%. Del resto, come emerso dalla relazione della Commissione UE sui pagamenti dell'imposta sul valore aggiunto, l'Italia è il paese dove si paga di meno l'IVA e, da solo, in nostro Paese copre il 25% dell'intera evasione comunitaria con un buco di 33,5 miliardi di euro.

I settori con il maggior tasso di evasione

Secondo quanto riposta l'Istituto nazionale di statistica, inoltre, il 41,7% del sommerso economico si concentra nel settore del commercio all'ingrosso e al dettaglio, trasporti e magazzinaggio, attività di alloggio e ristorazione, dove si genera il 21,4% del valore aggiunto totale. Il vero problema in Italia, però, resta il lavoro in nero. Nel 2017 - riporta Istat - 3,7 milioni di persone hanno lavorato senza avere un contratto regolare con una crescita dello 0,7% rispetto all'anno precedente. Secondo il presidente Istat Gian Carlo Blangiardo in audizione nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato: "La persistenza di elevati livelli di evasione fiscale e contributiva rappresenta un problema per il rafforzamento della capacità competitiva e di crescita del nostro Paese".

I numeri: 107 miliardi e 500 milioni di euro. Questa è la cifra a cui ammonta l’evasione fiscale nel nostro Paese. I dati sono contenuti in un rapporto del 2018 redatto dallo stesso Ministero dell’Economia e delle finanze (Mef). Tra l’altro, questi numeri appaiono quasi edulcorati. Sia perché alcuni economisti come Carlo Cottarelli parlano di ben 130 miliardi, sia perché 107,500 miliardi corrisponderebbe esclusivamente all’evasione in senso stretto, ovvero al tax gap. Il rapporto non considera quindi l’economia sommersa (che secondo l’Istat vale 210 miliardi di euro l’anno), i soldi della criminalità organizzata o quelli non dichiarati da chi ha un secondo o terzo lavoro: considerando queste cifre, alcuni studi affermano che la quantità di denaro evasa aumenterebbe a spaventosi 300 miliardi di euro, più di un terzo dell’intera spesa pubblica italiana.

l rapporto del Mef ci fornisce anche altri dati, utili per comprendere come e da dove partire per una lotta all’evasione fiscale. Ben 34 miliardi dei 107,5 totali deriverebbero dall’IRPEF (ovvero la tassa sul reddito delle persone fisiche) per imprese e lavoratori autonomi. Secondo lo studio, nel 2016 ben il 67,9% di questa imposta sarebbe stata evasa. La voce più consistente è però quella dell’IVA: sempre nel 2016, sarebbero quasi 34,9 miliardi gli euro non versati per l’imposta sul valore aggiunto, la quale riuscirebbe a raccogliere solo il 63,8% di quanto dovuto.

Se proviamo a fare una comparazione con gli altri Paesi europei, i risultati non sono rassicuranti. Secondo una relazione del Parlamento europeo, ogni anno in Europa viene evasa una cifra mastodontica: 823,5 miliardi di euro. Leggendo il documento scopriamo di essere il Paese con l’evasione fiscale pro-capite più alta in tutta l’UE, ben 3.156 euro a testa. Subito dietro troviamo Danimarca, Belgio e Lussemburgo, paesi dove l’alto livello di evasione pro-capite dipende anche dal un contemporaneo e più alto livello di PIL pro-capite.

Vi è infatti un problema alla base delle politiche per la lotta all’evasione fiscale: la schizofrenia. Come riportato anche dalla stampa specializzata, negli ultimi anni è mancata una strategia condivisa anche solo sulle linee essenziali per combattere gli evasori. In questo modo si è visto, con il cambiare dei governi, rapidi cambi di politiche, spesso sottomesse all’esigenza di accontentare il proprio elettorato, come dimostrato dal condono camuffato da pace fiscale dell’anno scorso firmato Salvini e Conte. Un altro esempio è quello del limite sul contante: 1000 euro nel 2007 con il governo Prodi, 5000 nel 2010 sotto Berlusconi, 1000 con Monti e poi 3000 con Renzi.

È indubbio che ci siano anche altre ragioni più pratiche e concrete per spiegare un’evasione fiscale così alta, come un livello di tassazione estremamente elevato, che nel 2017 è arrivato al 42,4%, facendoci risultare il sesto Paese per imposizione fiscale tra i grandi stati industrializzati. Ma finché non si capisce che l’evasione è anche un problema culturale e profondamente radicato nella mentalità degli italiani, la politica non farà grandi passi avanti.

I dati dell’economia sommersa parlano di una cifra di 194 miliardi, pari al12% del PIL cui si aggiunge un altro punto per le attività illegali.

E’ interessante leggere questi dati con quelli relativi alla percentuale degli occupati rispetto al numero della popolazione.

Il tasso di occupazione delle persone in età lavorativa che l’OCSE colloca nella fascia tra 20-64 anni.

L’employment outlook 2018 ci dice che l’Italia ha soltanto il 62,3% dei cittadini che lavorano in quella fascia di età in cui dovrebbero farlo tutti. Solo Turchia e Grecia fanno peggio di noi.

La leadership è dell’Islanda con l’86,15 e la Svizzera con l’80%. Se la media dell’Unione europea – che si era posto per il 2020 l’obiettivo del 75% di persone al lavoro nella fascia 20-64 – attualmente è pari al 72,2%, molti Paesi hanno superato il traguardo del 75% (Svezia, Germania, Estonia, Danimarca, Repubblica Ceca, Lituania e Austria).

Da noi più di 37 milioni di cittadini non lavorano:

● per ragioni di età (12,5 milioni sono in pensione e più di 8 milioni hanno meno di 15 anni);

● poi ci sono gli inattivi, circa 14 milioni oltre il 23% della popolazione residente, al cui interno quelli che sarebbero disposti a lavorare sono 3,5 milioni;

● 10,5 milioni non vogliono lavorare.

Quindi: il Paese ha spostato il baricentro dalla produzione (reddito) alla rendita.

Scrivono De Rita e Galdo (Prigionieri del presente, Einaudi 2018): “E’ nata l’Italia dei rentiers. Dove la cultura economica collettiva soffoca nel presente, nel tutto “qui e ora”, con l’eclissi del gusto e del rischio per l’investimento che non sia quello finanziario e patrimoniale…. Gli imperativi di una società che mira a proteggersi attraverso lo scudo della rendita diventano un’ossessiva tendenza alla moltiplicazione del risparmio…Nella priorità degli Italiani per il prossimo futuro, classificata da un’indagine del Censis realizzata dando la possibilità di più risposte, alle prime due posizioni compaiono gli obiettivi di “mettere soldi da parte” (56,7%) e “ridurre le spese mensili” (51,7%), mentre soltanto in fondo all’elenco spunta l’aspirazione di “fare un investimento di lungo periodo” (22,15)”.

                                      §§§§

Ritroviamo le stesse analisi in Stigliz, il quale censura il cd. breveperiodismo che qualifica come un grave problema non solo per le imprese ma anche per l’intera economia, scoraggia i veri investimenti che creano un potenziale di crescita economica di lungo periodo, introduce distorsioni nell’economia provocando una diminuzione degli investimenti e un indebolimento delle dinamiche occupazionali. Il nostro programma, afferma Stiglitz, propone di usare il codice tributario per creare incentivi che premino il lavoro anziché la ricerca di rendita o la speculazione. Così è possibile raccogliere un significativo ammontare di entrate da destinare in investimenti pubblici in istruzione, infrastrutture e tecnologia in modo da creare un’economia più solida.

Bisogna dire però che non è solo un fenomeno italiano. Secondo il FMI tra il 1991 e il 2014 la quota di reddito destinato al lavoro è diminuita, in favore di rendite, capitale e pensioni, in 29 delle maggiori 50 economie mondiali e in 7 dei 10 più importanti settori economici. In due terzi dell’economia mondiale ha perso il lavoro.

Secondo alcuni studiosi (Th. Piketty, Il capitale del XXI secolo, Hravard University press) tra gli otto Paesi più industrializzati considerati, il nostro è quello in cui il capitale-rendita prevale più nettamente sul reddito, cioè è pari a 7 volte il reddito, mentre negli States lo stesso rapporto è inferiore a 5.

Tra le potenze economiche mondiali l’Italia è senza crescita dopo aver subito alla fine del 2018 la terza recessione in dieci anni e non è un caso, se si considera che sin dal 2000 si registra stabilmente un divario negativo medio di un punto percentuale di crescita annua tra Italia ed area Euro; in termini di PIL pro capite i livelli italiani sono quelli di 10 anni fa.

QUALI PROPOSTE OFFRIRE?

Se le premesse ci dicono che stiamo vivendo una lunga recessione, pur tenendo conto che le recessioni si correggono da sole (P. Krugman), è altrettanto vero che, come sosteneva Keynes, nel lungo periodo siamo tutti morti.

Per indurre i cittadini a spendere, una risposta può essere quella dei tagli fiscali (se si lascia più danaro in mano ai cittadini consumatori è pensabile che essi lo spendano).

Un’altra risposta è la spesa pubblica.

Fu questo il dibattito degli anni ’50 e ’60 in America tra monetaristi e fiscalisti. Prevalsero i monetaristi di Friedman. Secondo gli economisti ortodossi per uscire dalla recessione la politica monetaria andrebbe bene per la stabilizzazione nel breve periodo mentre a lungo termine sarebbe necessaria la politica fiscale.

Il ricorso alla politica fiscale (riduzione della pressione fiscale quale primo passo per la crescita del PIL ed il raggiungimento dell’equilibrio di bilancio) è invocato nell’analisi di Assolombarda contenuta nel Libro bianco “Fisco, imprese e crescita”.

Nello studio si conferma che il PIL italiano è al di sotto del periodo di pre crisi: - 4,2% inferiore al 2008 e per recuperare il gap ci vorrà tempo fino al 20121. Secondo i dati dello studio, l’economia mondiale è 35 punti percentuali sopra quei livelli, trainata da USA (+ 15,3%), Cina, (raddoppiata nello stesso periodo) e Germania (+ 11,7%) cioè quei Paesi che hanno investito nell’economia digitale e nell’innovazione dei processi produttivi.

A fronte di questi dati macro, abbiamo in Italia:

● Gli investimenti l’incidenza delle spese in R&S è pari all’1,34% del PIL, meno della metà del 2,9% della Germania. Le imprese italiane registrano circa 4.300 brevetti l’anno, rispetto agli oltre 25.000 della Germania e circa 10.500 della Francia (fonte: European Patenti Office, 2017).

● Gli investimenti sono del – 19,9% sotto i livelli di pre crisi (Istat anno 2017). Le imprese italiane, specie quelle manifatturiere che costituiscono la seconda economia dell’Europa, soffrono la vetustà dei macchinari (l’età media dei macchinari è di 12,8 anni, (dati UCIMU 2014) e ritardi nella digitalizzazione dei processi (Industria 4.0) che determinano un gap di produttività.

● La pressione fiscale è al 47,9% (Centro Studi Confindustria 2017). Il libro bianco ricorda che secondo lo studio “ Paying Taxes 2018” di World Bank e PWC l’Italia è 112ma tra 190 Paesi analizzati per attrattiva fiscale (Lo studio compara il carico fiscale su un’impresa tipo a livello internazionale e l’indice sintetico considera quattro parametri: 1) l’ammontare complessivo delle imposte pagate da un’impresa tipo su profitti, immobili, autoveicoli, carburanti, contributi sociali e lavoro rapportato agli utili lordi, 2) il tempo necessario per gli adempimenti; 3) il numero di pagamenti, 4) il post-filing index è dato dalla media semplice di quattro variabili: tempo necessario per richiedere un rimborso Iva- tempo necessario per ricevere un rimborso Iva-tempo necessario per richiedere la correzione di un errore involontario sull’Ires, anche attraverso una verifica fiscale-tempo necessario per completare una verifica fiscale)

● Il cuneo fiscale raggiunge il 47% del costo del lavoro (OCSE, Taxing Wages 2018, anno 2017). L’Italia è il terzo Paese OCSE con l’incidenza più elevata.

● L’evasione fiscale e contributiva è fissata in 109 miliardi di euro l’anno (stima MEF media periodo 2013-15) pari al 23,5% delle entrate tributarie teoriche totali e l’Italia si colloca al quinto posto tra i 28 Paesi della UE nello studio della Commissione Europea di comparazione dei diversi livelli di compliance fiscale negli Stati membri relativamente all’IVA.

CONCLUSIONI

Ogni progetto di riforma fiscale sarà destinato al fallimento se il perimetro dell’economia in cui si opera resterà quello proprio di una società cd. fredda, una società in cui non si investe.

Senza investimenti non si va da nessuna parte e si finisce per stare seduti intorno allo stesso tavolo con a disposizione la stessa torta il cui volume non aumenta: sarà sempre una società, come il gioco, a somma zero: i progressi di uno saranno gli arretramenti dell’altro; i successi di uno saranno i fallimenti dell’altro.

E’ questo il messaggio che UNCAT intende lanciare:

Il Fisco non si riforma con piccoli aggiustamenti e a colpi di machete. La lotta all’evasione non può essere la bandiera di un’azione di governo perché è ontologicamente connessa alla funzione stessa del Ministero ed a predicarla non si scopre nulla di nuovo. Se non si consolida un sistema fiscale coerente e duraturo la lotta all’evasione costituirà l’imbellettamento della politica e non darà alcun frutto. Mettere in galera un numero x di evasori non significa assicurare un sistema fiscale virtuoso, di cui l’intera collettività ha bisogno.

Inasprire le sanzioni per colpire nel mucchio diventa un ingenuo grido di guerra.

Sono queste le ragioni fondamentali perché il giudizio sia sul decreto fiscale in corso di conversione che sulla prossima legge finanziaria è sostanzialmente negativo. Un sistema fiscale basato sulla minaccia, sull’inasprimento severo, figlio della sfiducia preconcetta verso il contribuente non va lontano e determina effetti contrari rispetto alle aspettative. Uncat, richiestone espressamente, ha trasmesso alla V Commissione Finanze della Camera una memoria nella quale ha evidenziato le criticità di molte disposizioni normative, a partire dalle compensazioni a finire alla disciplina dei reati.

Sono queste le ragioni per le quali l’avvocatura specialistica che si riconosce in Uncat scende a sostegno dell’impresa, ma allo stesso tempo dice all’impresa di fare affidamento sull’Avvocatura, di credere nell’Avvocatura che è qui oggi al servizio degli altri, come sempre.

Consapevoli di solcare quotidianamente una strada irta di contrarietà, non abbattiamoci e facciamo nostro un divertente quanto profondo motto di Henry Ford “Quando tutto sembra andar male, ricorda che gli aerei decollano contro vento, non col vento a favore”.

Avv. Antonio Damascelli, avvocato tributarista cassazionista, Presidente Unione Nazionale Camere Avvocati Tributaristi

14.04.2021

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