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Brevi note in tema di esecuzione delle sentenze tributarie

Dott. Matteo Busico

Processo Tributario

1. – La riscossione dopo la sentenza (o l’ordinanza) di cassazione con rinvio

L’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992 regola la riscossione frazionata del tributo e degli interessi relativi in pendenza del giudizio; trattasi di una disciplina di carattere sostanziale, impropriamente collocata nel corpus normativo del processo tributario.
Con il decreto legislativo n. 156 del 2015 è stato aggiunto all’art. 68, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992 la lettera c-bis), che prevede la riscossione a titolo provvisorio “per l’ammontare dovuto nella pendenza del giudizio di primo grado dopo la sentenza della Corte di cassazione di annullamento con rinvio”; pertanto, indipendentemente da quale sia stata la parte soccombente nel giudizio di cassazione, l’ente impositore è legittimato a riscuotere il tributo nella misura prevista dalle singole leggi d’imposta a seguito del ricorso di primo grado. La norma appena citata ha subito aspre critiche, stante l’illogica equiparazione della situazione processuale ante decisum con quella in essere dopo il giudizio di legittimità, con conseguenze in molti casi paradossali, in particolar modo qualora la decisione della Suprema Corte sia stata favorevole alle ragioni del contribuente, che nel giudizio di primo grado avesse ottenuto la sospensione cautelare dell’esecuzione dell’atto impugnato, ovvero una sentenza favorevole. Per di più, il ripristino dell’efficacia ante decisum dell’atto impugnato porterebbe a non tenere conto di eventuali giudicati interni che si siano formati su singoli capi delle pronunce rese nel corso giudizio; potrebbe darsi il caso che in sede di rinvio la materia del contendere sia ormai limitata a una minima porzione dell’atto impugnato, mentre per la restante si sia formato un giudicato endoprocessuale a favore del contribuente; in tal caso, l’applicazione della norma in analisi porterebbe irragionevolmente alla riscossione in pendenza del giudizio di rinvio di un importo che potrebbe risultare addirittura superiore a quello dovuto in caso di esito negativo del giudizio medesimo. Inoltre, non è stata prevista la tutela cautelare per il contribuente che si trova sottoposto all’azione esecutiva dell’autorità fiscale nel corso del giudizio dal medesimo riassunto a seguito del rinvio della Cassazione, con evidente violazione degli artt. 3 e 24 Cost.; tale censura, tuttavia, può essere superata richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte che, nell’ambito del processo civile, ha ammesso l’inibitoria in sede di rinvio, attribuendo al giudice del rinvio il potere cautelare previsto ex lege nell’ambito del giudizio di appello. Peraltro, non si può escludere che in pendenza del giudizio di rinvio, ai fini della riscossione, possa persistere la sospensione dell’atto ottenuta ex art. 62-bis del D.Lgs. n. 546/1992 dal contribuente ricorrente in cassazione, dovendosi ritenere poco ragionevole che lo stesso, in tale evenienza, non debba versare alcuna somma nel corso del giudizio di legittimità, mentre sia tenuto a farlo nell’ipotesi di esito favorevole del giudizio medesimo; al fine di confortare tale tesi può essere utile rammentare che in primo grado gli effetti della sospensione cessano dalla data di pubblicazione della sentenze, ai sensi dell’art. 47, comma 7, del D.Lgs. n. 546/1992, mentre una norma di analogo tenore non è prevista nel citato art. 62-bis.

2. – La previsione del rimedio dell’ottemperanza in caso di mancata restituzione delle somme versate dal contribuente in pendenza del giudizio

Il primo periodo del comma 2 dell’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992 prevede che, in caso di accoglimento del ricorso del contribuente, il tributo corrisposto in eccedenza “rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale” debba essere rimborsato entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza; trattasi di un obbligo di restituzione che costituisce un effetto legale della sentenza, che pertanto opera a prescindere da una espressa statuizione del giudice in proposito.
La disposizione appena citata fa riferimento alle sole sentenze “della commissione tributaria provinciale”; tuttavia, è opinione diffusa che la previsione valga, a maggior ragione, anche per le sentenze della commissione tributaria regionale, in quanto risulterebbe davvero irragionevole attribuire una minore forza esecutiva al decisum del giudice di grado superiore. Il secondo periodo del comma 2 dell’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992 prevede che “in caso di mancata esecuzione del rimborso il contribuente può chiedere l’ottemperanza a norma dell’art. 70 alla commissione tributaria provinciale, ovvero se il giudizio è pendente nei gradi successivi, alla commissione tributaria regionale”. La prima parte della disposizione appena citata riconosce al contribuente - a fronte dell’inerzia dell’ufficio ad adempiere a un preciso obbligo di legge - una tutela esecutiva effettiva e immediata per la restituzione di quanto versato in via provvisoria, mentre la seconda parte della stessa prevede un criterio di competenza del giudice dell’ottemperanza differente da quello previsto dall’art. 70 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e si pone in contrasto con principio secondo il quale, in tema di competenza del giudice dell’ottemperanza, non esiste miglior giudice per dare esecuzione a una sentenza del medesimo giudice che la ha emanata, in quanto nessuno più di egli è in grado di interpretare gli obblighi derivanti dalla stessa e risolvere le eventuali contestazione sulla sua portata.

3. – La garanzia per l’esecuzione delle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente

L’art. 69 del D.Lgs. n. 546/1992 disciplina l’“esecuzione delle sentenze di condanna in favore del contribuente”; nel periodo iniziale del suo primo comma sancisce il principio generale secondo il quale “le sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente … sono immediatamente esecutive”, mentre nel successivo è previsto che “tuttavia il pagamento di somme dell’importo superiore a diecimila euro, diverse dalle spese di lite, può essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante, alla prestazione di idonea garanzia”.
Non poche sono le questioni interpretative che la norma appena citata pone. Il primo luogo, non dovrebbero sussistere dubbi che si tratta di una facoltà, non di un obbligo, del giudice quello di disporre la cautela pro fisco in argomento, contrariamente a quanto lasciato intendere in un passaggio della relazione illustrativa del D.Lgs. n. 156/2015, nel quale si parla della “necessità in via generale di una garanzia”. Altrettanto incontrovertibile è la circostanza che il pagamento a titolo di refusione delle spese di lite, dovuto in base alla statuizione di condanna del giudice sul punto, non può essere condizionato ad alcuna garanzia, data l’espressa esclusione disposta dalla legge. Con riguardo al giudice competente a disporre la prestazione della garanzia in questione, risulta alquanto probabile che la norma sia stata scritta pensando che la cautela preventiva debba essere disposta dallo stesso giudice che, accertato il credito del contribuente, ne fa conseguire la condanna della parte resistente e in questo senso depone la relazione governativa illustrativa del D.Lgs. n. 156/2015, la prima analisi della dottrina e la prassi dell’Agenzia delle entrate. Tuttavia, è stato opportunamente fatto notare che risulta piuttosto contraddittorio che l’onere della garanzia sia disposto dallo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza di condanna, il quale, subordinando l’esecuzione del provvedimento ad una cautela, sembra quasi che dubiti del suo stesso giudizio, lasciando in tal modo trasparire l’idea di una decisione per così dire “perplessa”, ovvero emanata nel timore di una sua eventuale riforma. Altra questione che si posta è la seguente: la garanzia pro fisco in esame può essere disposta dal giudice d’ufficio, oppure al contrario occorre una apposita istanza della parte interessata, ovvero la pars publica? La norma non prevede affatto la necessità di una apposita istanza di parte al fine di richiedere la prestazione della garanzia; tuttavia, il giudice per emanare un provvedimento in tal senso è tenuto a valutare le condizioni di solvibilità del contribuente; pertanto, solo qualora l’ente impositore abbia allegato e altresì provato le negative condizioni di solvibilità del contribuente il giudice medesimo è legittimato a disporre siffatta cautela, dunque grava sulla pars publica quantomeno l’onere di allegazione in giudizio dei fatti incidenti negativamente sulla solvibilità del contribuente, altrimenti tali fatti non potrebbero in alcun modo essere ricompresi nella cognizione del giudice, se non violando palesemente il principio dispositivo che nel processo tributario indubbiamente opera relativamente ai fatti rilevanti per la decisione. Risulta assolutamente allineata alla posizione appena espressa la prassi dell’Agenzia delle entrate, che con riguardo ai “giudizi aventi ad oggetto il rifiuto espresso o tacito ad una istanza di rimborso di somme superiori a diecimila euro” ha raccomandato ai propri uffici di provvedere “a fornire al giudice eventuali elementi idonei ad incidere negativamente sul giudizio di solvibilità del contribuente, al fine di ottenere, in caso di soccombenza, la previsione di una idonea garanzia”; al contrario, non è condivisibile la posizione della giurisprudenza di merito che ha disposto la garanzia de qua senza aver valutato le condizioni di solvibilità del contribuente - che potrebbero anche essere state ottimali, sì da non giustificare l’adozione di alcuna cautela pro fisco - in assenza di allegazioni dell’ente impositore in proposito.

4. – I giudizi di ottemperanza decisi in composizione monocratica

L’art. 70 del D.Lgs. n. 546/1992 prevede un comma finale, il 10-bis, ai sensi del quale “per il pagamento di somme di importo fino a ventimila euro e comunque per il pagamento delle spese di giudizio, il ricorso è deciso dalla Commissione in composizione monocratica”.
Non poche sono le problematiche che tale disposizione appena citata pone; in particolare, appare poco ragionevole, o quantomeno contraddittorio, aver inserito un ben preciso limite quantitativo oltre il quale la decisione sull’ottemperanza debba essere collegiale, che però non opera affatto per le spese di lite, che in ogni caso, a prescindere dal loro importo, che potrebbe essere anche di rilevante entità, sono trattate da un solo membro della commissione.
La disposizione, perlomeno, non comporta alcuna complicazione di sorta per il contribuente ricorrente in ottemperanza, il quale indirizza il proprio ricorso al Presidente della Commissione tributaria, che di regola lo assegna alla sezione che ha pronunciato al sentenza; sarà poi il Presidente della sezione a dover farsi carico di seguire il precetto normativo di cui al citato comma 10-bis nello stabilire la composizione della Commissione chiamata a pronunciarsi sul ricorso; a ben vedere, dunque, la disposizione in esame non riguarda l’individuazione del giudice competente a decidere la controversia, in quanto si limita a stabilire i criteri di composizione dell’organo giudicante.

Dott. Matteo Busico, Dottore di ricerca in diritto processuale tributario Università Pisa

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