news / Detrazione per servizi pubblicitari ammessa alle condizioni fissate dalla Direttiva IVA.
torna alle newsDetrazione per servizi pubblicitari ammessa alle condizioni fissate dalla Direttiva IVA.
prof. Nicola Galleani d’Agliano
L’incerto confine fra le spese professionali e voluttuarie mette a rischio la detrazione IVA?
La Corte di Giustizia, con la sentenza relativa alla causa C-334/20 del 2021, ha riaffermato l’autonomia del diritto alla detrazione IVA che, senza “contaminazioni” da altri settori fiscali, resta assoggettato alle sole condizioni fissate dalla Direttiva 2006/112/CE. Resta, però, sullo sfondo la comprensibile preoccupazione che l’incertezza interpretativa sulla distinzione fra i costi professionali (detraibili) e le spese voluttuarie (indetraibili) possa aprire dei pericolosi varchi per controlli fiscali particolarmente invasivi nelle scelte imprenditoriali.
L’Autorità fiscale può limitare il diritto alla detrazione dell’IVA assolta per acquisti ritenuti parzialmente voluttuari, perché di ammontare eccessivo rispetto alle normali esigenze dell’attività economica? Dietro la chiarezza del dispositivo della sentenza in commento, che riafferma l’autonomia delle regole in materia di detrazione IVA senza “contaminazioni” da altri settori fiscali, si nasconde l’interrogativo sopra posto a cui dovrà rispondere il giudice del rinvio tenendo a mente l’art. 176, par. 1, secondo periodo della Dir. 2006/112/CE. L’importanza di questa disposizione, applicata ex officio dai giudici europei, si rivela nella sentenza in commento dove si discute intorno alla possibilità di qualificare i servizi pubblicitari fra le spese di natura voluttuaria e come tali indetraibili ai sensi dell’anzidetto art. 176. Come si vedrà più avanti, un uso disinvolto di tale norma, senza un sapiente dosaggio interpretativo, potrebbe trasformarsi in un’arma in mano al Fisco per aprire dei pericolosi varchi, inizialmente esili ma, in una più lunga prospettiva, rischiosi tanto da consentire all’Autorità fiscale un controllo particolarmente invasivo nelle scelte imprenditoriali. Non si sta parlando, è bene chiarirlo, né di sovrafatturazione fraudolenta e neppure della valutazione in merito alla effettiva utilità dell’onere rispetto all’attività esercitata. Qui, la domanda è un’altra: segnatamente, se il Fisco possa entrare nel merito dell’acquisto effettuato dall’operatore ritenendolo una spesa (parzialmente) voluttuaria laddove la ritenga eccessivamente onerosa rispetto alle normali esigenze dell’impresa che, teoricamente, potrebbero essere ugualmente soddisfatte con un bene o un servizio meno costoso. Per essere ancora più chiari, è utile fare un esempio. Un soggetto, nell’intraprendere l’attività di tassista, opta per l’acquisto di un’auto sportiva di lusso detraendosi l’IVA. In tal caso, occorre chiedersi se, tenuto conto del menzionato art. 176, l’Autorità tributaria sia legittimata a rettificare il quantum della detrazione adducendo una valutazione di convenienza economica, ossia, che la medesima attività di tassista potrebbe essere esercitata con un’automobile utilitaria e, quindi, acquistabile ad un prezzo notevolmente inferiore rispetto all’auto di lusso. Probabilmente una risposta immediata non vi è, dal momento che essa presuppone una previa analisi dei molti e forse troppi elementi, soprattutto di fatto, che hanno concorso alla decisione dei giudici europei. Dunque, prima di soffermarci sulle questioni interpretative della Direttiva 2006/112/CE, diventa indispensabile esplorare gli aspetti essenziali della vicenda sottostante unitamente ad una breve ricognizione dei principi in materia di detrazione dell’IVA.
La sentenza Pavlína Baštová quale motivazione alternativa al recupero IVA?
Le contestazioni sollevate dall’Autorità tributaria ungherese non sembrano, in realtà, manifestamente infondate. Dal controllo fiscale sono emersi alcuni aspetti che, in effetti, ingenerano dei dubbi sul diritto alla detrazione in capo alla società Amper Metal. Quest’ultima, che opera nel settore degli impianti elettrici, ha acquistato dei servizi che consistono nell’apporre degli adesivi pubblicitari, recanti l’insegna Amper Metal, sulle auto da corsa in occasione del campionato automobilistico svolto in Ungheria. L’acquisto suscita qualche perplessità, non foss’altro perché gli adesivi non raggiungono i clienti della società costituiti da “cartiere, laminatoi a caldo e altri impianti industriali”. È, dunque, ritenuto improbabile che i costi pubblicitari possano incidere sulle decisioni dei clienti in merito alla scelta del fornitore. Ad avallare questa ipotesi vi sono i pareri resi dai periti giudiziari, secondo cui i servizi pubblicitari risulterebbero “troppi costosi” e, dunque, “non (...) proficui”. Nel contesto così delineato, l’Amministrazione fiscale avrebbe potuto puntare (ma non l’ha fatto) sulla sentenza Pavlína Baštová del 20162, in cui il tema di fondo è la detraibilità dell’IVA per le spese di gestione di una scuderia di cavalli da corsa. In particolare, l’interrogativo posto ai giudici europei è se tali costi siano configurabili come spese generali connesse all’attività e, dunque, detraibili. La Corte ha risposto affermativamente, a condizione che la “partecipazione [dei cavalli] a gare ippiche costituisca oggettivamente un mezzo per promuovere l’attività economica di tale scuderia. Se ricorre quest’ipotesi, le spese sostenute per la preparazione e la partecipazione di tali cavalli alle gare ippiche presentano un nesso diretto e immediato con il complesso dell’attività economica consistente nella gestione di questa scuderia. Da un lato, infatti, è pacifico che il prezzo di vendita di un cavallo da corsa risulta (...) addirittura dalla fama che esso abbia eventualmente acquisito in forza della partecipazione a gare. D’altro lato, i successi dei suoi cavalli nelle corse possono conferire al gestore della scuderia maggior rinomanza, pubblicità o visibilità, idonee ad incidere sul prezzo dei suoi servizi di allenamento di cavalli appartenenti a terzi (...)”. Traslando questo principio al caso della sentenza in commento, viene da sé l’indetraibilità dei costi sostenuti per l’acquisto degli adesivi pubblicitari che - come sembra emergere dagli atti di causa - non sono stati ritenuti un mezzo di promozione per l’attività di Amper Metal. Ma tutto ciò è stato totalmente trascurato dall’Amministrazione fiscale ungherese, la quale ha preferito giustificare l’indetraibilità dell’IVA ripiegando sui criteri per la deducibilità delle imposte sul reddito nel tentativo di estenderli per analogia all’IVA3. Vale la pena illustrare, in sintesi, il percorso interpretativo dell’ente impositore. Secondo la legge IVA ungherese, il diritto di detrazione è ammesso qualora il soggetto passivo “utilizzi o sfrutti in altro modo” gli acquisti. L’espressione “sfrutti in altro modo” va inteso nel senso che, analogamente al significato assegnato dalla giurisprudenza nazionale alle disposizioni delle imposte sul reddito, lo “sfruttamento” del servizio sia “efficiente e redditizio”. Nel caso di specie, il cliente non ha ottenuto dal servizio pubblicitario alcun aumento del suo volume d’affari che, a dire dell’ente impositore, resta in ogni caso sproporzionato ed eccessivo se confrontato con il valore di mercato del medesimo servizio. Sicché, chiosa l’Autorità fiscale, è “l’assenza di razionalità economica” che “osta all’esercizio del diritto a detrazione dell’IVA” avuto riguardo all’articolo “80, paragrafo 1, della Direttiva IVA [il quale] consente di rettificare la base imponibile (…) indicata in una fattura, qualora quest’ultima non corrisponda a un valore normale di mercato”. In definitiva, secondo l’Amministrazione tributaria, la detrazione dell’IVA presuppone che la spesa, oltre ad essere un elemento costitutivo del prezzo della successiva vendita, sia “ragionevole” ed “economicamente redditizia”, cioè, in grado di produrre un aumento del volume d’affari4. Su questo tema, merita particolare attenzione la sentenza del caso Sveda5. Questa società aveva ricevuto un contributo pubblico finalizzato alla realizzazione di un parco di divertimento. Secondo gli accordi con il Comune l’accesso al parco era gratuito: tuttavia la società aveva una indubbia utilità dallo stesso parco, avendo ivi installato un chiosco per l’attività di piccola ristorazione. È evidente, in tal caso, la sproporzione tra i costi sostenuti dalla Sveda per la costruzione del parco divertimenti e gli introiti che la medesima società ottiene dalla gestione del chiosco. È un profilo che non viene preso in considerazione dalla Corte che, invece, indirizza l’analisi giuridica della vicenda sulla rilevanza o meno della gratuità dell’accesso al parco. Sul punto, l’Avvocato Generale Kokott osserva che (punto 31) “Sussistono pertanto due diverse finalità cui sono rivolti l’acquisto o la fabbricazione dei beni d’investimento. È preminente la messa a disposizione gratuita al pubblico del percorso ricreativo (utilizzo primario), che ai sensi dell’art. 168 della Direttiva IVA non dà alcun diritto alla detrazione dell’imposta. In secondo piano, invece, vi è l’utilizzo del percorso ricreativo come strumento per fornire ai visitatori prestazioni soggette ad imposta (utilizzo secondario), fornitura da cui deriva un diritto alla detrazione dell’imposta. Quale di queste due finalità, dunque, è dirimente nel contesto dell’art. 168 della Direttiva IVA?”. La Corte risponde all’interrogativo affermando che, nella specie, l’utilizzo dei beni d’investimento a titolo gratuito non rimette in causa il nesso diretto e immediato fra le operazioni a monte e quelle a valle che danno diritto a detrazione ovvero con il complesso delle attività del soggetto passivo; per questo, tale utilizzo è ininfluente sulla esistenza del diritto alla detrazione dell’IVA.
Autonomia della detrazione IVA senza “contaminazioni” dal settore delle imposte sul reddito
La scelta “strategica” dell’ente impositore ungherese, che consiste nel limitare la detrazione dell’IVA con condizioni supplementari ricercate nel diverso settore delle imposte sul reddito, non ha persuaso la Corte di Giustizia che per ben tre volte - dunque, a scanso di equivoci - ha ribadito che il diritto di detrazione dell’imposta non dipende da un “criterio relativo all’aumento del fatturato del soggetto passivo né, in termini più generali, a un criterio di redditività economica dell’operazione effettuata a monte” (punto 30). Più chiaramente, “l’assenza di aumento del fatturato del soggetto passivo non può incidere sull’esercizio del diritto a detrazione” (punto 35) e, quindi, “la circostanza che i servizi acquistati dalla Amper Metal non abbiano determinato un aumento del suo fatturato è irrilevante” (punti 35 e 39). Il dictum è chiarissimo: l’aumento del fatturato è irrilevante ai fini della detrazione dell’IVA. Ovvero, in altri termini, non è necessario che, ai fini della detrazione, venga dimostrato che il costo sostenuto abbia generato un effettivo incremento del volume d’affari. Si tratta di un messaggio trasmesso dalla Corte all’Autorità fiscale ungherese, ma indirettamente anche a tutte le Amministrazioni fiscali degli altri Stati dell’Unione, che ha il merito di incrinare le antiche certezze del legislatore italiano che, troppo spesso, tende a prendere in prestito le nozioni e gli istituti del T.U.I.R. che, però, rischiano di presentare evidenti profili di incompatibilità con la Direttiva 2006/112/CE 6 . Ciò vale, a maggior ragione, tenuto conto che i giudici di Lussemburgo hanno smontato gli argomenti sostenuti dall’ente impositore senza un eccessivo sforzo, tanto più evidente dal richiamo in motivazione ai principi generali che, ormai da tempo, sono scolpiti nella giurisprudenza europea. In particolare, seguendo l’ordine logico della Corte, nella sentenza si sottolinea, anzitutto, che l’acquisto del servizio deve essere a titolo oneroso, cioè, caratterizzato dallo schema logico del do ut des fra il fornitore ed il cliente. Quanto, poi, alla somma detraibile, i giudici europei osservano che essa va determinata in funzione della base imponibile IVA che, com’è noto, viene parametrata “non” su “un valore oggettivo, come il valore di mercato o un valore di riferimento determinato dall’Amministrazione finanziaria” (punto 28), bensì sul prezzo, liberamente stabilito fra parti indipendenti, che il cliente versa al fornitore. Con l’ulteriore precisazione che l’indipendenza fra le parti crea uno sbarramento all’ingresso del valore normale, che risulta applicabile soltanto quando sussiste un legame familiare o altri stretti vincoli personali, gestionali o di natura giuridica fra colui che presta il servizio e chi lo riceve. A questo punto, è naturale che la Corte di Giustizia, dopo aver “depurato” i concetti reddituali dal sistema IVA, si focalizzi sulle due disposizioni della Direttiva 2006/112/CE che possono restringere il diritto alla detrazione: precisamente, il già citato art. 176, par. 1 e, inoltre, l’art. 168, par. 1 che consente al soggetto passivo l’esercizio della detrazione “nella misura in cui i beni e i servizi [acquistati] sono impiegati ai fini di sue operazioni [attive] soggette ad imposta”. È opportuno, per semplificare, analizzare separatamente le osservazioni della Corte per l’una e l’altra norma, atteso che ognuna di esse fa sorgere delle problematiche meritevoli di approfondimento.
Condizioni per la detrazione delle spese generali
Non va dimenticato, quando si leggono le decisioni della Corte di Giustizia, che la collaborazione del giudice europeo va oltre l’interpretazione autentica delle norme dell’ordinamento dell’Unione, potendo la stessa Corte suggerire al giudice nazionale, a volte fra le righe della motivazione, una chiave di lettura decisiva per risolvere il merito della controversia. In questa prospettiva la sentenza in esame, avuto riguardo alla particolare natura dei servizi pubblicitari, si è concentrata sulla giurisprudenza che ammette la detraibilità delle spese generali come stabilito nei precedenti richiamati dalla Corte, vale a dire, le sentenze Iberdrola e Hartstein-Industrie Il tratto distintivo delle due vicende è la scelta del soggetto passivo di costruire e ristrutturare dei beni di proprietà di un terzo che, a titolo gratuito, beneficia dei servizi destinati ad essere utilizzati da entrambi9, ossia dal soggetto passivo e dal terzo. Posto che il ripristino delle infrastrutture comunali10 è una sorta di pre-condizione per l’esercizio dell’attività economica da parte del soggetto passivo (cioè, la locazione degli immobili e lo sfruttamento di una cava di calcare), la Corte non ha dubbi nel riconoscere la detrazione dell’IVA assolta a monte per i servizi resi dall’operatore, “nei limiti in cui detti” servizi “non siano andati oltre quanto necessario per consentire al soggetto passivo di esercitare la sua attività economica e il loro costo sia incluso nel prezzo delle operazioni effettuate a valle dal soggetto passivo medesimo”11. Quest’ultima affermazione è stata stimolata dall’Avvocato Generale che, nelle Conclusioni della causa Iberdrola, aveva osservato come il diritto di detrazione non è giustificato da un “nesso meramente causale” fra gli acquisti e le vendite, bensì dall’utilizzo dei primi nell’attività economica rinvenibile nel prezzo della vendita. Ecco spiegato perché i giudici europei, nella sentenza in commento, abbiano sentito il bisogno di riconoscere la detrazione all’interno dei confini delle sole prestazioni a monte “necessarie”, cioè, che sono ribaltate nelle successive operazioni attive. In caso contrario, puntualizza la Corte, il nesso di collegamento viene meno, ossia, si interrompe, non essendo possibile collegare l’acquisto alla vendita e, per tale motivo, il costo diventa indetraibile nonostante rientri nell’ambito imprenditoriale. Diversa è, invece, la finalità sottesa all’art. 176 della Direttiva, vale a dire, eliminare il rischio che il soggetto passivo possa detrarsi i costi sostenuti per determinati beni e servizi che, in realtà, vengono destinati dall’operatore per esigenze non professionali, ma riconducibili alla sfera privata. Si intravede come il fulcro della disposizione non sia il paragrafo 2 che contiene la clausola c.d. stand still e neppure il primo periodo del paragrafo 1, ad oggi rimasto inattuato non avendo il Consiglio, su proposta della Commissione, stabilito quali siano le spese indetraibili così da allineare le norme nazionali degli Stati dell’Unione. L’elemento cardine è, quindi, il secondo periodo del paragrafo 1 il quale, nel prevedere l’indetraibilità per le spese di lusso, divertimento e rappresentanza, introduce una limitazione oggettiva al diritto di detrazione che scatta nel momento in cui il soggetto passivo effettui un’operazione configurabile in una delle tre categorie sopra indicate.
Punti fermi e problemi aperti nella giurisprudenza europea
L’analisi della sentenza in commento non si deve fermare alla lettura del dispositivo, sebbene in esso viene riaffermata l’autonomia del sistema IVA che resta impermeabile alle regole di altri settori fiscali. Difatti, secondo la soluzione adottata dai giudici, posta a presidio e salvaguardia dell’ortodossa applicazione della Direttiva 2006/112/CE per i costi che partecipano indirettamente alla formazione del prezzo delle operazioni attive, come nel caso della pubblicità, l’incremento del fatturato non costituisce una condizione per la detrazione. Non solo, ma il fatto che il prezzo pagato dal soggetto passivo sia superiore al prezzo di mercato, ovvero a qualsiasi valore di riferimento determinato dall’Amministrazione fiscale per le prestazioni pubblicitarie analoghe, non può giustificare l’indetraibilità dell’imposta. Resta, però, sullo sfondo la comprensibile preoccupazione dell’effettivo impatto che l’art. 176, par. 1, secondo periodo della Direttiva potrebbe avere in futuro sulle strategie accertative delle Autorità tributarie. Per ritornare all’esempio iniziale del tassista, non sarebbe sorprendente un rilievo dell’ente impositore, fondato sull’anzidetto art. 176, con il quale si contesti la scelta imprenditoriale di svolgere l’attività con un’auto di lusso sportiva, anziché con un mezzo meno costoso. In tal caso, non viene messa in discussione l’effettività ovvero l’antieconomicità dell’acquisto e neppure la sovrafatturazione del bene, piuttosto l’eccezione sollevata dal Fisco attiene al merito della decisione presa dall’operatore di effettuare quel tipo di investimento (auto di lusso) in luogo di un altro (auto utilitaria). Il tema è, ovviamente, delicatissimo. Anzitutto, perché non sembra risolutiva la richiamata giurisprudenza europea che riconosce la detrazione delle spese generali in quanto, nelle vicende esaminate dai giudici europei, manca il requisito voluttuario dei costi che, riguardando il ripristino di infrastrutture comunali, sono destinati all’attività economica seppur non è chiaro se, nei casi di specie, sia avvenuto il ribaltamento a valle sulle operazioni attive. E, poi, occorre chiedersi se il citato art. 176, par. 1, secondo periodo, implichi una valutazione dell’operazione da “dentro o fuori” e, se fosse così, delle due l’una: la spesa è qualificata come voluttuaria (indetraibile) o non lo è (detraibile). Diversamente, secondo un’altra interpretazione della norma, l’ente impositore potrebbe procedere ad uno sdoppiamento della qualificazione del costo ritenuto voluttuario, ma solo per una quota parte, con la conseguente indetraibilità non totale, ma parziale dell’imposta. La risposta a questi interrogativi non è agevole. Tuttavia, deve essere ben chiaro che l’obiettivo del sistema IVA, al di là delle condotte fraudolente o abusive, non è quello di decidere, in supplenza dell’operatore economico, se effettuare un investimento più o meno congruo rispetto al fatturato oppure alla sua struttura organizzativa dell’operatore. In realtà, il vero ed unico obiettivo dichiarato dalla Direttiva 2006/112/CE è sgravare i soggetti passivi dal peso dell’imposta, così da garantire una libera e sana concorrenza fiscale. Tant’è vero che, scavando nell’essenza della Direttiva, l’art. 168 sembra introdurre una presunzione secondo cui tutta l’IVA assolta sugli acquisti si intende ribaltata nelle vendite e, pertanto, risulta detraibile a meno che in via eccezionale, come stabilito dal successivo art. 176, l’acquisto diventi indetraibile perché destinato alla sfera personale dell’operatore. Corollario di ciò è che la libertà d’impresa non può subire dall’Autorità tributaria una drastica ed illegittima compressione attraverso delle valutazioni arbitrarie, ingiuste e sproporzionate in quanto svincolate dai limiti fissati dal legislatore e dalla giurisprudenza.
Nicola Galleani d’Agliano, Professore a contratto di Diritto Tributario avanzato Università Pavia, Commercialista, Partner Studio P. Centore & Associati