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Frodi IVA e responsabilità del cessionario

Avv. Fabio Falcone

Iva e Dogane

Frodi IVA e responsabilità del cessionario

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 23080 del 22 ottobre 2020 ci consente di fare il punto sul tema della responsabilità del cessionario IVA che abbia effettuato acquisti da un fornitore poi risultato coinvolto in una frode IVA. Nella fattispecie in esame i giudici di legittimità, ribaltando la decisione della CTR del Molise, e (addirittura) decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384, comma 2 c.p.c., hanno respinto il ricorso originariamente opposto dalla società avverso l’avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate di Campobasso per il recupero dell’IVA assolta a fronte di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti, sostenendo che nella circostanza l’Ufficio aveva provato non solo la fittizietà dei fornitori, ma anche la consapevolezza o comunque la conoscibilità da parte del contribuente che l’operazione si inseriva nell’ambito di una frode IVA. La decisione in rassegna, se da un lato conferma il graduale ma doveroso avvicinamento della giurisprudenza di legittimità alle indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia (in particolare, si veda Corte di Giustizia, sentenza del 22 ottobre 2015, Causa C-277/14 (PPUH Stehcemp)), dall’altro desta comunque delle perplessità sul modo in cui i giudici di vertice interpretano e valutano l’assunto secondo cui il cessionario risponde dell’IVA non versata dal fornitore solamente qualora “non poteva non sapere” delle intenzioni fraudolenti dello stesso. Nel rispetto dell’insegnamento offerto dai giudici lussemburghesi, anche per la Corte di Cassazione appare ormai chiaro che, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, onde invocare validamente il disconoscimento del diritto alla detrazione dell’IVA assolta dal cessionario, l’Amministrazione finanziaria, conformemente all’onere probatorio su di essa incombente, non può limitarsi a dimostrare la fittizietà del fornitore, ma deve altresì (e soprattutto) provare che l’acquirente era (o avrebbe dovuto esserlo) consapevole del fatto che il suo acquisto si inseriva in una evasione dell’IVA (in questo senso si segnala, tra le altre, l’ordinanza n. 7693 del 6 aprile 2020,). Tuttavia, assodato il principio in richiamo, resta ancora aperta la questione attinente alle circostanze che possono giustificare degli addebiti, soprattutto in termini di colpevolezza, nei riguardi del cessionario, tali da legittimare il disconoscimento del diritto alla detrazione. Difatti, con riferimento alla fattispecie in esame è particolarmente discussa la portata della responsabilità del cessionario IVA che non abbia “suo malgrado” preso parte all’evasione posta in essere dal proprio fornitore; in questi casi non è facile delineare il confine tra la biasimevole leggerezza addebitabile al cessionario (per non aver svolto nessun tipo di verifica nei confronti di un fornitore apparso inequivocabilmente disonesto), e l’assenza di una preventiva attività di verifica e di controllo, certamente non spettante ad un normale operatore IVA. Ad esempio, nel caso deciso dalla sentenza in commento i giudici di vertice hanno lamentato nei confronti della società ricorrente se non altro “una colpa grave circa la diligenza nello svolgimento della attività professionale di imprenditore in campo automobilistico”, in quanto, a loro dire, viste le caratteristiche soggettive dei fornitori, unitamente alle modalità di pagamento richieste ed al prezzo praticato, la stessa avrebbe dovuto rendersi conto che detti soggetti avrebbero evaso l’IVA, risultata poi effettivamente non versata. Il punto è capire se gli elementi considerati dai giudici di legittimità a giustificazione della sentenza in esame possano considerarsi in grado di provare il fatto che l’acquirente “non poteva non sapere” dell’evasione IVA realizzata dai propri fornitori, ovvero, se si tratta più “semplicemente” di circostanze che potevano al limite generare un “sospetto”, dal quale tuttavia non sarebbe sorto in capo al cessionario l’onere di attivare controlli e verifiche che non gli competono, e che, soprattutto, non avrebbe dovuto giustificare il disconoscimento del diritto alla detrazione e, di conseguenza, la negazione della neutralità tipica dell’IVA. Al vero, gli elementi presi in considerazione dai giudici della Corte di Cassazione risultano in buona parte coincidenti con quelli che la Corte di Giustizia ha ritenuto non decisivi ai fini del disconoscimento della detrazione dell’IVA. Stando infatti all’insegnamento della Corte di Giustizia, “l’amministrazione fiscale non può esigere in maniera generale che il soggetto passivo il quale intende esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA, da un lato – al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni a livello degli operatori a monte – verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi a titolo dei quali viene richiesto l’esercizio di tale diritto abbia la qualità di soggetto passivo, che disponga dei beni di cui trattasi e sia in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA, o, dall’altro lato, che il suddetto soggetto passivo disponga di documenti a tale riguardo” (così Causa C 80/11 del 21 giugno 2012). In particolare, secondo le indicazioni della Corte di Giustizia l’assenza di una sede operativa non rappresenta un elemento dal quale il cessionario IVA deve inevitabilmente giungere alla conclusione di essere al cospetto di un soggetto fraudolento, desistendo, pertanto, dall’effettuare l’acquisto inizialmente programmato. Talché, nel caso della sentenza in esame l’assenza di dotazioni umane e strumentali di per sé non avrebbe dovuto giustificare o condizionare la decisione dei giudici di vertice, in quanto l’acquirente molisano non avrebbe potuto o dovuto escludere che la carenza di risorse dipendesse dalle particolari modalità con le quali venivano garantite le forniture di autovetture richieste. In particolare, l’esistenza di più vendite successive ben avrebbe potuto giustificare o comunque rendere plausibile il pagamento direttamente al fornitore estero, ovvero, il fatto che le autovetture provenissero direttamente dall’estero. Per quanto poi attiene al pagamento anticipato, non si vede per quale motivo tale circostanza avrebbe dovuto “certificare” la connotazione fraudolenta dei fornitori in questione, atteso che non vi è nulla di insolito o di patologico nel pagare in anticipo un bene commissionato, specie laddove la fornitura venga regolarmente garantita. In ordine, poi, al prezzo di vendita praticato, non vi è modo di capire per quale motivo i giudici di legittimità lo abbiano addirittura definito “vile”; al vero, viene da pensare che esso non fosse davvero tale, altrimenti non si giustificherebbe l’assoluzione ottenuta in sede penale. Nella sostanza, ad avviso di chi scrive nel caso esaminato dalla sentenza in commento, specie considerando l’assoluzione ottenuta nel parallelo giudizio penale, risulta che i giudici di legittimità siano giunti a “sanzionare” il contribuente accertato per aver effettuato acquisti da soggetti ritenuti palesemente fraudolenti, a fronte, tuttavia, di elementi e circostanze che, per stessa ammissione dei giudici lussemburghesi, non possono legittimare il disconoscimento del diritto della detrazione dell’IVA, non facendo venir meno lo status di soggetto passivo del relativo fornitore, la cui fattura, pertanto, resta validamente utilizzabile da parte dell’acquirente, né possono inficiare la posizione IVA di quest’ultimo, facendo venir meno la neutralità tipica del tributo comunitario. Come opportunamente sottolineato dall’Avvocato UE nella causa C-329/18, “persino quando vi sono indizi che consentono di sospettare l’esistenza di irregolarità, l’amministrazione tributaria non può esigere, in modo generalizzato, che i soggetti passivi, da un lato, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità, verifichino che gli emittenti delle fatture dispongano dei beni o siano in grado di fornirli e che abbiano soddisfatto i propri obblighi in materia di Iva, o, dall’altro, dispongano della relativa documentazione”. Ciò conferma che il semplice “sospetto” non può implicare l’obbligo di attivare controlli e verifiche dalla cui assenza far discendere il disconoscimento del diritto alla detrazione dell’IVA.

Avv. Fabio Falcone – Avvocato Tributarista Cassazionista – Presidente CAT Romagna

19/05/2021

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