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Il termine di decadenza per l’accertamento in caso passività inesistenti

Prof. Gianfranco Ferranti

Accertamento

La sopravvenienza attiva derivante dalla sopravvenuta insussistenza di passività iscritte in bilancio in esercizi precedenti concorre alla formazione del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 88, comma 1, del TUIR, solo qualora le stesse esistano al momento della loro iscrizione. Pertanto, l’Amministrazione finanziaria non potrebbe contestare la fittizietà delle passività inesistenti dopo che è scaduto il termine per l’accertamento del periodo d’imposta nel cui bilancio sono state iscritte. La Corte di cassazione ha confermato tale principio ma ha, nel contempo, stabilito la imponibilità della sopravvenienza attiva nel momento della sua “emersione” in bilancio, cioè in quello della “liberazione” della riserva “occulta” originata dalle dette passività.

L’art. 88, comma 1, del TUIR stabilisce che agli effetti delle imposte sui redditi si considerano sopravvenienze attive, tra le altre, quelle derivanti dalla “sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi”. Deve, pertanto, trattarsi di poste di competenza di esercizi precedenti alle quali l’evento sopravvenuto è collegato sul piano causale. In base al tenore letterale di questa disposizione, affinché si possa configurare la detta sopravvenienza la rettifica del componente negativo contabilizzato in esercizi precedenti deve necessariamente fondarsi su un evento “sopravvenuto”. Inoltre, l’operazione originaria deve risultare rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa. Si è posta, a tale riguardo, la questione se la fattispecie impositiva in esame sia configurabile in presenza di una passività iscritta fittiziamente nel bilancio di un esercizio precedente e se il termine per la rettifica del reddito decorra dal periodo d’imposta in cui è avvenuta la iscrizione della detta passività ovvero da quello nel quale viene “utilizzata” la correlata riserva “occulta” ancora iscritta in bilancio. Al riguardo si ritiene che non sia possibile assoggettare ad imposizione, quale sopravvenienza attiva, la menzionata riserva “occulta” nei periodi d’imposta successivi a quello in cui è avvenuta la decadenza del termine per l’accertamento del reddito del periodo d’imposta nel quale è stata iscritta la passività inesistente. Ciò nel rispetto del principio di competenza e perché non si è in presenza, come richiesto dall’art. 88, comma 1, del TUIR, di una “sopravvenuta” insussistenza di passività, essendo quella fittizia già presente negli esercizi precedenti. Tale impostazione interpretativa ha trovato conferma nella giurisprudenza più recente della Corte di cassazione, nell’ambito della quale si è ormai consolidato il principio in base al quale si “qualifica come sopravvenienza attiva da iscrivere in bilancio … la sopravvenuta insussistenza di passività iscritte in precedenti esercizi, ovvero esistenti al momento della loro iscrizione e poi venute meno per fatti sopravvenuti … si tratta quindi di passività in origine rispondenti a situazioni reali, che tuttavia nel corso degli esercizi hanno perso consistenza, pur continuando a figurare nel patrimonio dell'impresa”. Pertanto, “non può farsi rientrare in tale concetto la passività fittizia, cioè inesistente (e non semplicemente venuta meno per fatti sopravvenuti)”. Tali principi sono senz’altro condivisibili e, in base agli stessi, l’Amministrazione finanziaria non potrebbe contestare la fittizietà della passività iscritta in bilancio, ma in realtà inesistente, dopo che è scaduto il termine per l’accertamento del periodo d’imposta nel cui bilancio la stessa è stata iscritta. La Suprema corte ha, però, stabilito che deve comunque concorrere alla formazione del reddito d’impresa la sopravvenienza attiva che “si realizza in tutti i casi in cui, per qualsiasi ragione, e dunque indipendentemente dal sopraggiungere di eventi gestionali straordinari o comunque imprevedibili, una posizione debitoria, già annotata come tale, debba ritenersi cessata, ed assuma quindi in bilancio una connotazione attiva, come liberazione di riserve, con il conseguente assoggettamento ad imposizione, in riferimento all'esercizio in cui tale posta attiva emerge in bilancio ed acquista certezza”. E’ stata, pertanto, affermata la imponibilità della sopravvenienza attiva nel momento della sua “emersione” in bilancio, cioè in quello della “liberazione” della riserva “occulta” originata da passività inesistenti – attraverso la distribuzione delle relative somme -, anche se successivo rispetto all’effettivo esercizio di competenza. Quest’ultimo principio non appare condivisibile perché si ritiene che con la eliminazione della normativa in materia di “riserve occulte” - operata dalla riforma fiscale degli anni ’70 e confermata nel TUIR - il legislatore abbia inteso superare una delle deroghe più vistose ai principi di autonomia di tassazione dei singoli periodi d’imposta e di imputazione dei componenti reddituali ai periodi d’imposta di competenza. D’altra parte, le tesi contrarie formulate nella giurisprudenza di legittimità si basano, in molti casi, su un generico rinvio alle disposizioni in materia di sopravvenienze attive, senza però specificare quale sia la disposizione che autorizzerebbe, sempre e comunque, il recupero a tassazione dei proventi tardivamente imputati in bilancio. Si ritiene, quindi, che, in presenza di una passività iscritta fittiziamente nel bilancio di un esercizio precedente, il termine per la rettifica della stessa decorra dal periodo d’imposta in cui è avvenuta la deduzione dei costi e che nei periodi d’imposta successivi a quello in cui si è verificata la scadenza del relativo termine di accertamento non sia possibile assoggettare ad imposizione quali sopravvenienze attive le riserve “occulte” ancora iscritte in bilancio ancorché le stesse non siano state assoggettate ad imposizione.

L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità

La Corte di Cassazione ha evidenziato, nella sentenza del 20 febbraio 1996, n. 1310, che nell’art. 107 del DPR 28 gennaio 1958, n. 645, era fissato il principio secondo cui “i redditi sottratti a tassazione negli esercizi precedenti” concorrevano a formare il reddito imponibile dell'esercizio nel quale erano “imputati a capitale, distribuiti” o comunque “emersi” in bilancio. Ha poi ritenuto che la mancata riproduzione di tale previsione normativa nel DPR n. 597 del 1973 non sarebbe indice di un mutamento di indirizzo del legislatore rispetto ad un orientamento consolidato da oltre venti anni, ma sarebbe ascrivibile al fatto che tale disposizione risulterebbe ormai ridondante, in quanto le norme sulla rilevazione del reddito d'impresa - e in particolare quelle in tema di plusvalenze e di sopravvenienze - avrebbero dato vita ad un regime normativo già di per sé sufficiente al recupero a tassazione delle cosiddette “riserve occulte”. E’ stata, pertanto, ammessa la ripresa a tassazione di componenti positivi di reddito sottratti ad imposizione in precedenti esercizi, al fine di recuperare a tassazione le cosiddette “riserve occulte” nell’ambito del regime fiscale delle sopravvenienze attive, le quali, riferendosi a precedenti fatti di gestione, derogherebbero alla autonomia dei singoli periodi d’imposta: e ciò, parrebbe, anche successivamente alla scadenza del termine per l’accertamento del periodo d’imposta nel corso del quale la riserva è stata iscritta in bilancio. Tale possibilità è stata, però, limitata ai casi in cui le relative somme siano imputate a capitale, distribuite o “emergano” in bilancio. Nella sentenza del 22 settembre 2006, n. 20543, è stato poi ribadito che “l’insussistenza della passività deve ritenersi ‘sopravvenuta’ - secondo la massima latitudine semantica di questo termine - in tutti i casi in cui, per qualsiasi ragione, la posizione debitoria, già annotata come tale, debba ritenersi cessata ed assuma quindi nel bilancio una connotazione attiva, come liberazione di riserve. Tale positivo risultato - non limitato all’ipotesi di sopraggiunti ‘eventi gestionali straordinari o, comunque imprevedibili’ - costituisce sempre sopravvenienza attiva”. Anche in questo caso, quindi, il presupposto della tassazione è stato ancorato alla “liberazione di riserve” e, in ultima analisi, alla distribuzione delle somme. Questa sentenza è stata richiamata nella successiva dell’8 giugno 2011, n. 12436, nella quale è stato ritenuto legittimo il “recupero a tassazione come sopravvenienza attiva, nell’anno oggetto dell’accertamento, della posta passiva iscritta nel bilancio dell’anno precedente e considerata inesistente per il carattere fittizio sia del ‘conto riserva facoltativa per contributi in conto capitale e investimento’, nel quale era indimostrato che fossero confluiti, e per quale ammontare, supposti finanziamenti dei soci, sia delle operazioni attive e passive delle quali era risultato impossibile ricostruire le registrazioni contabili”. La sentenza del 2 agosto 2017, n. 19219, ha, a sua volta, richiamato le due sentenze menzionate in precedenza, ribadendo che “l'insussistenza delle passività è stata intesa come ‘sopravvenuta’ in tutti i casi in cui, per qualsiasi ragione, la posizione debitoria, già annotata come tale, debba ritenersi cessata e assuma quindi nel bilancio una connotazione attiva, come liberazione di riserve, con il conseguente assoggettamento a imposizione, con riferimento all'esercizio in cui tale posta attiva emerge in bilancio ed acquista certezza”. E’ stato, altresì, correttamente precisato che “non rientra in tale concetto (di sopravvenuta insussistenza di passività) la passività fittizia, cioè inesistente … che non può pertanto equipararsi alle altre passività iscritte nei precedenti esercizi, non fittizie, ma esistenti al momento della loro iscrizione, e poi venute meno per fatti sopravvenuti. Ciò in quanto la sopravvenienza attiva si realizza venendo meno successivamente una passività effettivamente esistente, mentre nel caso di specie si tratta di una passività fittizia, che rileva … al momento della sua eliminazione per decisione discrezionale della contribuente”. Da ultimo, la Suprema corte ha confermato, nelle ordinanze del 23 gennaio 2020, n. 1508, del 9 agosto 2022, n. 24580, e del 17 novembre 2022, n. 33974, e nella sentenza del 16 marzo 2022, n. 8623, che la detta sopravvenuta insussistenza di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi “si realizza in tutti i casi in cui, per qualsiasi ragione, e dunque indipendentemente dal sopraggiungere di eventi gestionali straordinari o comunque imprevedibili, una posizione debitoria, già annotata come tale, debba ritenersi cessata, ed assuma quindi in bilancio una connotazione attiva, come liberazione di riserve, con il conseguente assoggettamento ad imposizione, in riferimento all'esercizio in cui tale posta attiva emerge in bilancio ed acquista certezza”. Nella ordinanza n. 33974 del 2022 è stato, in particolare, precisato che “non può farsi rientrare in tale concetto la passività fittizia, cioè inesistente (e non semplicemente venuta meno per fatti sopravvenuti), che rileva … soltanto al momento della sua eliminazione per decisione discrezionale del contribuente”. La sentenza d'appello è stata, pertanto, ritenuta errata “nella parte in cui, dando atto del carattere fittizio di alcune poste passive, ne ha poi riconosciuta la corretta ripresa per mancata annotazione della sopravvenienza attiva. In altri termini, le somme oggetto di accertamento - corrispondenti a costi iscritti a bilanci precedenti dei quali in seguito era stata acclarata l'inesistenza ab origine - non potevano essere riprese a tassazione a titolo di sopravvenienze attive, implicando necessariamente queste ultime il verificarsi di un evento sopravvenuto, tale da produrre una variazione di segno positivo negli effetti finanziari di un'operazione appostata in un esercizio precedente”.

La questione della imponibilità delle riserve “occulte”

La Suprema corte ha fatto, come detto, riferimento, nella sentenza n. 1310 del 1996, al regime fiscale dei redditi sottratti alla imposizione negli esercizi precedenti contenuto nel DPR n. 645 del 1958, che ha formato oggetto, nel corso del tempo, di molteplici interventi legislativi. L’art. 19 della legge dell’8 giugno 1936, n. 1231, aveva inizialmente stabilito che “quando nel bilancio di una società od ente ..., relativo ad un determinato esercizio, risulti che redditi sottratti alla tassazione negli esercizi precedenti siano, sotto qualsiasi forma, distribuiti agli azionisti, la Finanza ha il diritto di accertarli, ai soli fini della tassazione definitiva di conguaglio, in una con gli altri redditi dell’esercizio al quale il bilancio si riferisce. La stessa facoltà di accertamento spetta all’Amministrazione finanziaria allorché i redditi precedentemente sottratti alla tassazione emergano per la prima volta da bilanci relativi alla liquidazione della società o dell’ente”. Tale presupposto impositivo era stato poi ampliato dall’art. 24, primo comma, del R.D. 3 giugno 1943, n. 598, che aveva stabilito che “le riserve costituite con redditi sfuggiti alla tassazione e gli accantonamenti non tassati, in quanto siano trasferiti a capitale, sono soggetti all’imposta di ricchezza mobile nell’esercizio in cui tale passaggio si verifica”. In tal modo erano stati assoggettati ad imposizione, oltre ai casi di distribuzione e di emersione delle dette riserve nei bilanci di liquidazione, anche quelli nei quali era effettuata la loro imputazione a capitale. La disciplina delle “riserve occulte” era stata ulteriormente modificata dall’art. 22, primo comma, della legge del 5 gennaio 1956, n. 1, che aveva previsto che “i redditi sottratti a tassazione negli esercizi precedenti concorrono, ai soli fini della tassazione definitiva di conguaglio, a formare il reddito imponibile nell’esercizio nel quale sono imputati a capitale o distribuiti o comunque emergono dal bilancio”. Questa disposizione, che era stata poi sostanzialmente recepita dall’art. 107 del DPR 29 gennaio 1958, n. 645, aveva aggiunto alle ipotesi già disciplinate in precedenza quella in cui i detti redditi “comunque emergono in bilancio». Era stato, quindi, normativamente stabilito, ai fini della configurazione del presupposto impositivo, che nella “riserva occulta” doveva essere confluito reddito imponibile, che la sua esistenza doveva essere stata “occultata” e che il detto reddito doveva essere stato attribuito ai soci (mediante la sua distribuzione) o all’impresa (mediante il reinvestimento o il trasferimento a terzi). Ricorrendo tali condizioni, il reddito in esame poteva essere assoggettato ad imposizione entro l’ordinario termine di decadenza e quando la detta “riserva occulta” emergeva in bilancio iniziava a decorrere un nuovo termine decadenziale. Le ricordate previsioni normative non erano state, però, inserite nei DPR nn. 597 e 598 del 1973 e tale circostanza aveva indotto la maggior parte della dottrina a ritenere che, di conseguenza, il legislatore avesse inteso rinunciare ad assoggettare ad imposizione le fattispecie in esame. Era stato ritenuto che a sostegno di tale conclusione militassero la tassatività delle ipotesi di sopravvenienze attive fiscalmente rilevanti, l’avvenuta estensione del termine entro il quale l’Amministrazione finanziaria poteva effettuare il controllo delle dichiarazioni e l’esigenza di rispettare il principio dell’autonomia dei risultati verificatisi nei vari periodi d’imposta. In senso contrario si era, invece, espressa la Corte di cassazione nella sentenza n. 1310 del 1996, la quale aveva ritenuto che la disposizione sulle “riserve occulte” fosse semplicemente divenuta superflua alla luce delle disposizioni relative alle plusvalenze e alle sopravvenienze attive dalle quali sarebbe emerso il principio della “continuità” dei risultati reddituali dei vari periodi d’imposta rispetto ai principi di “autonomia” e di “competenza”. Il richiamo operato dalla Corte alle plusvalenze iscritte in bilancio ha, peraltro, perso, ormai da anni, attualità a seguito dell’eliminazione della previsione normativa che ne prevedeva l’imponibilità. Tale tesi era stata condivisa da una parte, minoritaria, della dottrina, che aveva richiamato al riguardo la disposizione, già da allora esistente, secondo la quale l’imponibilità delle sopravvenienze attive derivanti dalla sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi sarebbe stata finalizzata ad evitare ingiustificati “salti normativi” e avrebbe abbracciato ogni “ricchezza che si manifesta a favore del patrimonio d’impresa in relazione al venir meno di qualsiasi passività”. Tale tesi non si ritiene condivisibile per i motivi più avanti illustrati. Era stato anche sostenuto che l’imponibilità, nel momento della loro emersione in bilancio, dei proventi sfuggiti a tassazione in precedenti esercizi conseguisse dal principio di derivazione del reddito d’impresa dal risultato civilistico. Anche l’Assonime ha richiamato, nella circolare del 12 giugno 2014, n. 20, la citata sentenza n. 1310 del 1996, e affermato che il rispetto del divieto di doppia imposizione introduce una deroga al principio di immodificabilità della obbligazione tributaria definitasi per decorrenza dei termini di accertamento “anche in favore del fisco per i c.d. ‘utili sfuggiti a tassazione’. Intendiamo riferirci ad una disposizione che era presente nel testo unico delle imposte dirette del 1958 – e, cioè, all’art. 107 del d.P.R. n. 645/1958 – e che a quanto ci consta, è rimasta confermata nella prassi degli uffici anche nella vigenza dell’attuale testo unico, secondo cui sono tassabili le sopravvenienze attive emergenti in bilanci che rilevino proventi sfuggiti a tassazione di esercizi per i quali sono spirati i termini di accertamento. Viceversa – ancorché sul punto ci sia stata in passato un po’ di confusione – non assume rilevanza fiscale la sopravvenuta contabilizzazione di proventi relativi ad esercizi ancora suscettibili di accertamento”. Ciò in quanto “tanto i contribuenti, quanto gli uffici finanziari sono tenuti a ricollocare tali proventi nel corretto periodo di competenza ... Ma proprio alla luce delle considerazioni fin qui svolte, questo principio appare condivisibile solo per gli utili sfuggiti a tassazione di esercizi non più suscettibili di accertamento”. Con l’entrata in vigore del TUIR la situazione non è mutata, salvo, come detto, l’eliminazione della rilevanza fiscale delle plusvalenze iscritte.

Il termine di decadenza dell’accertamento

Appare senz’altro condivisibile il principio, sancito nell’ambito della giurisprudenza di legittimità esaminata in precedenza, secondo il quale non rientra nell’ambito dell’ipotesi normativa di “sopravvenuta insussistenza di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi” il caso della “passività fittizia, cioè inesistente … e non semplicemente venuta meno per fatti sopravvenuti”. Risulta, infatti, chiaro il tenore letterale della norma concernente le sopravvenienze attive, la quale stabilisce espressamente che la insussistenza delle passività debba essere “sopravvenuta” e che la stessa possa essere, quindi, contestata dall’ufficio soltanto qualora l’iscrizione in bilancio non risulti fittizia ma reale e siano successivamente intervenuti eventi che l’abbiano resa non più giustificata. Si ritiene, invece, che non sia in linea con la vigente disciplina normativa il principio, affermato nell’ambito della stessa giurisprudenza di legittimità, in base al quale la detta sopravvenuta insussistenza di passività si realizzerebbe “in tutti i casi in cui, per qualsiasi ragione, e dunque indipendentemente dal sopraggiungere di eventi gestionali straordinari o comunque imprevedibili, una posizione debitoria, già annotata come tale, debba ritenersi cessata, ed assuma quindi in bilancio una connotazione attiva, come liberazione di riserve, con il conseguente assoggettamento ad imposizione, in riferimento all'esercizio in cui tale posta attiva emerge in bilancio ed acquista certezza”. Ciò in quanto, come già ricordato in precedenza, con la soppressione della normativa in materia di “riserve occulte” il legislatore ha inteso eliminare una delle deroghe più vistose ai principi di autonomia di tassazione dei singoli periodi d’imposta e di imputazione dei componenti reddituali ai periodi d’imposta di competenza: principi che caratterizzano tuttora la disciplina del reddito d’impresa. Non appaiono condivisibili le tesi contrarie formulate nella giurisprudenza di legittimità, in quanto fondate su previsioni normative ormai superate (quale quella riguardante la rilevanza fiscale delle plusvalenze iscritte in bilancio) o su un generico rinvio alle disposizioni in materia di sopravvenienze attive, senza però specificare quale sia la disposizione che autorizzerebbe, sempre e comunque, il recupero a tassazione dei proventi tardivamente imputati in bilancio. Non risulta, inoltre, possibile fare riferimento ad altre previsioni normative, quali quelle riguardanti l’imponibilità di risarcimenti ed indennizzi. La contraria interpretazione, secondo la quale sarebbe possibile assoggettare ad imposizione, in qualsiasi periodo d’imposta successivo, passività iscritte fittiziamente nei bilanci di esercizi precedenti, darebbe luogo ad un arbitrario e ingiustificato prolungamento dei termini per l’accertamento delle violazioni commesse negli anni nei quali sono state effettuate le false appostazioni contabili. Si ricorda, a tale riguardo, che la Corte di Cassazione ha stabilito, nella sentenza a SS.UU. del 25 marzo 2021, n. 8500, che in caso di contestazione di un componente di reddito “ad efficacia pluriennale” per ragioni concernenti “il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso”, la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento deve essere verificata facendo riferimento al termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente pluriennale è indicato e non a quello concernente il periodo di imposta nel quale il detto componente è maturato o è stato iscritto per la prima volta in bilancio. In particolare, nella suddetta sentenza è stato rilevato che la questione in esame “investe una casistica ampia e di notevole riscontro pratico, caratterizzata dalla rilevanza pluriennale di determinati componenti reddituali; cioè di elementi economici e patrimoniali che, per quanto emersi e consolidatisi nella loro genesi causale sostanziale in una determinata annualità d’imposta, sono tuttavia dalla legge fiscale ammessi a produrre effetti sulla formazione della base imponibile di annualità successive, eventualmente anche molto lontane da quella di origine”. Le stesse Sezioni Unite della Cassazione hanno evidenziato l’ampiezza delle ricadute pratiche del principio di diritto sopra ricordato, che è stato ricordato riguardare, ad esempio, i casi: · del riporto in avanti delle perdite di esercizi pregressi; · delle quote di ammortamento di beni materiali e immateriali; · delle sopravvenienze attive rateizzabili; · dei c.d. bonus riconosciuti, ad esempio, mediante: le detrazioni decennali per rate costanti di quota delle spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici e del 90 per cento delle spese documentate per la pulitura o tinteggiatura delle facciate esterne degli edifici; la detrazione quinquennale in rate costanti delle spese affrontate per l’efficientamento energetico degli edifici, la prevenzione sismica, l’installazione di impianti fotovoltaici e di colonnine di ricarica di veicoli elettrici (c.d. Superbonus 110 per cento); il riconoscimento pluriennale di crediti d’imposta, come quelli per attività di ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica e digitale, “suscettibili di essere fatti valere in compensazione, entro un tetto predeterminato, in quote annuali di pari importo a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello di maturazione (nel qual caso, il termine per la contestazione di inesistenza e per il recupero del credito decorre per legge, non dalla dichiarazione iniziale, ma dal suo successivo utilizzo in compensazione)”. La Corte ha, quindi, sancito il seguente principio di diritto: “nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, d.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 43, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente pluriennale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio”. Il detto principio è stato applicato dalla Corte di cassazione anche in altri casi, diversi da quelli sopra ricordati e che non riguardano i componenti di reddito “ad efficacia pluriennale” intesi in senso stretto. Ad esempio, con riferimento ad ipotesi analoghe a quelle in esame, è stato stabilito, nella sentenza del 30 giugno 2021, n. 18370, che la restituzione di un finanziamento in favore dei soggetti partecipanti, ritenuto dall’Amministrazione finanziaria come una posta fittizia dello stato patrimoniale perché frutto di ricavi occultati e non contabilizzati dalla società, può essere legittimamente contestato anche in riferimento al solo periodo d’imposta in cui sia avvenuta la retrocessione, nonostante il fatto generatore, ovvero la formazione e l’incremento di queste somme, sia avvenuto in un momento per il quale è scaduto il termine decadenziale. Nella successiva ordinanza del 10 gennaio 2022, n. 394, è stato affermato che, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti l’insussistenza di una posta passiva iscritta in bilancio, è onere del contribuente dimostrarne l’esistenza, l’ammontare e l’inerenza, “senza che rilevi l’eventuale inerzia dell’ufficio relativamente alla dichiarazione resa per i periodi d’imposta precedenti, contenente la medesima posta, stante l’autonomia di ciascun periodo ai fini dell’esercizio del potere impositivo, tale per cui il termine decadenziale va valutato con riferimento al periodo d’imposta cui si riferisce la dichiarazione rettificata”. In merito a tale orientamento della giurisprudenza di legittimità si osserva che le argomentazioni formulate nella motivazione della sentenza a Sezioni Unite in esame appaiono senz’altro ben motivate sotto il profilo giuridico. Tuttavia, le conseguenze cui si perviene sulla base del richiamato principio di diritto appaiono difficilmente condivisibili. Come ricordato nella detta sentenza, quello in base al quale il contribuente non può restare esposto all’azione esecutiva del Fisco per termini eccessivamente dilatati è “un principio basilare di civiltà giuridica che si fa al contempo carico sia dell’interesse generale alla stabilizzazione, entro un termine ragionevole, del rapporto giuridico tributario ed alla correlativa certezza delle entrate erariali, sia del diritto del contribuente di non essere lasciato per un tempo indeterminato, o comunque eccessivamente lungo (quale può essere quello decennale di prescrizione), sostanzialmente in balìa delle iniziative recuperatorie del Fisco”. È compito dell’Amministrazione finanziaria controllare la correttezza, ai fini contabili e fiscali, di tali operazioni “iniziali” e a tal fine la stessa dispone di tutto il tempo per provvedere, nel rispetto dell’ordinario termine di decadenza. Ciò a maggior ragione nelle ipotesi oggetto del presente articolo, che riguardano componenti reddituali che non hanno di per sé “efficacia pluriennale”. La giurisprudenza di merito sta, peraltro, assumendo una posizione nettamente contraria a quella della Suprema corte, propugnando un “ritorno alla certezza” nei rapporti tra Amministrazione finanziaria e contribuente . Si ritiene, pertanto, che la violazione consistente nell’appostazione in bilancio di passività fittizie debba essere contestata mediante l’accertamento relativo al periodo d’imposta cui si riferisce il detto bilancio in cui l'erronea annotazione è stata effettuata, sulla base degli elementi desunti dalle stesse scritture effettuate dall'imprenditore . Non è, invece, possibile recuperare a tassazione le imposte evase nel detto periodo in sede di accertamento relativo ad un anno successivo, anche se le stesse passività fittizie continuano ad essere indicate nel relativo bilancio. In caso di distribuzione degli utili delle “riserve occulte” si ritiene che gli stessi debbano, peraltro, essere assoggettati ad imposizione in capo ai soci della società di capitale in base alle regole ordinarie.

Fonte: Corriere Tributario n. 1/2023

Prof. Gianfranco Ferranti, Ordinario Diritto Tributario Scuola Nazionale dell’Amministrazione, Direttore Rivista “Il Fisco”, Condirettore scientifico della rivista “Corriere Tributario”

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