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La Suprema Corte rimuove le incertezze sul rapporto tra infedele dichiarazione ed omesso versamento di imposte

Prof. avv. Roberto Cordeiro Guerra, Avv. Rita Brami

Sanzioni

La questione del cumulo tra la sanzione per infedele dichiarazione ex art. 5, D.Lgs. n. 471/1997 e quella correlata all’omesso versamento di imposte (art. 13, D.Lgs. n. 471/1997) presentava prima della recente pronuncia della Cassazione profili di incertezza sia nella giurisprudenza di legittimità che nella prassi amministrativa. Sul primo versante, la stessa Corte di cassazione con una precedente decisione (Cass. n. 29299/2018) sembrava - ancorché in modo incidentale e non del tutto chiaro - aver ritenuto legittimo con riferimento a violazioni in materia di IVA il cumulo tra la sanzione per omessa fatturazione e quella per ritardato versamento, ed escluso quindi l’assorbimento della seconda in quella più grave compiuta a monte. L’Agenzia, dal canto suo, affrontando il regime della regolarizzazione delle violazioni, in alcune risalenti circolari si era implicitamente espressa in senso favorevole al cumulo, per poi, sempre implicitamente, abbandonare tale orientamento con la circolare n. 42 del 12 ottobre 2016. Unanime, invece, l’orientamento della dottrina in senso contrario al cumulo. Opportunamente, la recente sentenza n. 27693/2020 della Suprema Corte interviene a rimuovere ogni dubbio, chiarendo i presupposti che legittimano la configurazione di ciascuna violazione ed escludendo l’irrogazione di due distinte sanzioni a fronte di un unico comportamento. Pertanto, ove l’Agenzia accerti una maggiore imposta e contesti la presentazione di dichiarazione infedele tale più grave sanzione, conseguente all’espletamento dell’attività accertativa dell’Ufficio, assorbe la sanzione di cui all’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997 dovuta a fronte del mancato versamento di imposte già dichiarate dal contribuente o comunque liquidate.

Il caso deciso dalla Corte

Nella vicenda oggetto della decisione del giudice di legittimità l’Agenzia delle entrate aveva proceduto all’applicazione della sanzione di cui all’art. 5, D.Lgs. n. 471/1997 per infedele dichiarazione a seguito di rilievi ai fini IVA ed IRAP, ritenuti peraltro dal contribuente fondati, tanto che lo stesso aveva prestato acquiescenza all’accertamento e provveduto al pagamento delle imposte e delle sanzioni. Con successivo atto di contestazione l’Agenzia irrogava inoltre, per il medesimo anno d’imposta, l’ulteriore sanzione di cui all’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997 nella misura del 30% dell’IVA non versata, atto che veniva impugnato dal contribuente. L’Agenzia, soccombente in entrambi i precedenti gradi di giudizio, ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza di secondo grado, ribadendo la legittimità del proprio operato e dunque della sanzione irrogata per l’omesso versamento sul presupposto che la società, avendo dichiarato un imponibile IVA inferiore a quello risultante dalla contabilità sarebbe incorsa in una duplice violazione: 1.la prima correlata alla presentazione della dichiarazione con l’indicazione di un’imposta dovuta inferiore a quella effettiva, sanzionata dall’art. 5 del D.Lgs. n. 471/1997 ed irrogata unitamente all’avviso di accertamento; 2.l’altra afferente invece l’omesso versamento nei termini di legge della maggior IVA accertata. Tale assunto non è stato condiviso dal giudice di legittimità che, nella sentenza in esame, ha fatto chiarezza in ordine alla corretta interpretazione e applicazione delle norme relative alle sanzioni amministrative e censurato il modus operandi dell’Agenzia escludendo l’applicabilità della sanzione di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997, nell’ipotesi in cui in sede di accertamento sia stata irrogata la più grave sanzione per infedele dichiarazione.

La normativa in tema di omesso versamento ed infedele dichiarazione

I primi tre commi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997, inserito nel titolo secondo, disciplinano espressamente le sanzioni in materia di riscossione e mirano nel complesso a sanzionare l’omesso o ritardato versamento delle imposte. In maggior dettaglio, il comma 1 sanziona quei soggetti che non adempiono, anche solo in parte, alle scadenze prescritte dalla legge, ai versamenti in acconto, ai versamenti periodici, al versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione e così via, comminando loro una pena amministrativa pari al 30% di ogni importo non versato. Proseguendo, il comma 2 prevede l’estensione della sanzione del 30% anche al caso degli accertamenti c.d. cartolari, per cui “la sanzione di cui al comma 1 si applica nei casi di liquidazione della maggior imposta ai sensi degli artt. 36-bis e 36-ter del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e ai sensi dell’art. 54-bis del Decreto del Presiden-te della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”. Infine, il comma 3 dispone, a chiusura del sistema, che la sanzione si applichi altresì in tutte le ipotesi di mancato pagamento del tributo o di una sua frazione nel termine previsto; ciò a condizione che si sia in presenza di tributi diversi da quelli riscossi tramite iscrizione a ruolo. Pertanto la sanzione proporzionale (30%) - prevista dall’art. 13 del D.Lgs. n.471/1997 per chi non esegue in tutto od in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione - mira a punire il comportamento del contribuente che, dopo aver dichiarato di essere obbligato al pagamento dell’imposta, ne omette il versamento. Tale condotta, siccome valutata meno grave rispetto al comportamento tenuto dal soggetto passivo che omette perfino di dichiarare la sussistenza dell’obbligazione tributaria (omessa o infedele dichiarazione, art. 5 del D.Lgs. n. 471/1997), è punita con la sanzione più lieve del 30% dell’importo non versato. L’art. 5 del D.Lgs. n.471/1997, inserito nel titolo primo dedicato alle violazioni in materia di imposte dirette ed IVA, sanziona invece il comportamento del contribuente che abbia omesso di indicare un maggior reddito imponibile (e di conseguenza necessariamente non versato la relativa imposta) con l’irrogazione della più grave sanzione prevista per l’omessa/infedele dichiarazione. Trattandosi di mancata dichiarazione di un determinato imponibile, la condotta illecita ingloba logicamente in sé il mancato versamento del tributo, risultando strettamente consequenziale al primo segmento (mancato inserimento in dichiarazione) il secondo, consistente nell’omesso versamento della relativa imposta. Con la conseguenza che la violazione espressiva di un maggior disvalore (presentazione di dichiarazione infedele e conseguente mancato pagamento del tributo) viene punita dal legislatore con una sanzione più grave rispetto a quella connotata da minore pericolosità (omesso versamento di un tributo). Ne deriva che la pretesa da parte dell’Agenzia di cumulare la sanzione (a suo tempo irrogata) per infedele dichiarazione e quella per omesso versamento appare priva di fondamento in quanto contraria alla ratio delle due disposizioni conseguente un’interpretazione sistematica di tale provvedimento come del tutto correttamente rilevato dal giudice di legittimità nella sentenza qui commentata.

Il pensiero della Corte

Nella sentenza in esame la Suprema Corte giunge a censurare il modus operandi dell’Agenzia in considerazione del diverso tenore letterale delle disposizioni sopra citate, precisando come il legislatore nell’art. 5 D.Lgs. n. 471/1997 sanzioni la dichiarazione infedele e dunque il comportamento di colui che indica nella dichiarazione un’imposta inferiore a quella dovuta, mentre con l’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997 punisca il mancato pagamento alle scadenze prestabilite delle somme indicate dal contribuente nella propria dichiarazione. Con riferimento in particolare all’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997 la Suprema Corte ha precisato che tale norma non riguarda qualsiasi mancato “versamento dell’imposta” quanto piuttosto “la mancata esecuzione in tutto o in parte dei versamenti dell’imposta risultante dalla dichiarazione”, presupponendo pertanto “che dalla dichiarazione redatta dal contribuente emerga un preciso importo come imposta dovuta” e che il contribuente abbia omesso proprio il versamento dell’imposta dichiarata. Il giudice di legittimità chiarisce quindi, sulla base di un’interpretazione del tutto condivisibile, che l’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997 è applicabile alle sole ipotesi di mancato versamento delle imposte autoliquidate e dunque alla mancata esecuzione in tutto o in parte dei versamenti dovuti sulla base della dichiarazione, circoscrivendo l’ambito di applicazione della disposizione alle ipotesi di omessi o ritardati versamenti che il contribuente è tenuto ad effettuare spontaneamente, con esclusione quindi dei casi in cui il versamento si renda dovuto a seguito di un atto dell’Amministrazione finanziaria. A tale proposito si legge infatti nella motivazione che laddove “il mancato versamento di imposte sia diretta conseguenza della omessa indicazione nella dichiarazione dell’importo dell’imposta effettivamente dovuto, tale comportamento integra dichiarazione infedele per la quale è prevista la sanzione ben più grave di cui all’art. 5 che copre non solo la violazione formale dell’infedele dichiarazione ossia di una dichiarazione errata, recante un importo inferiore a quello realmente dovuto, ma anche il conseguente ed inevitabile mancato versamento dell’imposta effettivamente dovuta non potendo in tal caso la parte provvedere materialmente al versamento dell’importo corretto atteso che il pagamento corrisponde al dato indicato nella stessa dichiarazione”.

Conseguentemente la Corte in tale fattispecie esclude che siano ravvisabili “due distinte violazioni autonomamente sanzionabili, ma un unico comportamento, al quale non può che essere applicata un’unica sanzione” cioè quella prevista dall’art. 5 che assorbe anche l’omesso versamento ed “osta all’applicazione della sanzione di cui all’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997”. Ad indiretta conferma dell’inapplicabilità al caso di specie della sanzione di cui all’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997, la Corte richiama infine il disposto dell’art. 29 del D.L. n. 78/2010 che ha introdotto nel sistema tributario gli avvisi di accertamento esecutivi che non necessitano di preventiva iscrizione a ruolo e notifica delle cartelle di pagamento per la riscossione delle somme ivi accertate. Detta norma, come integrata dall’art. 7, comma 2, lett. n), del D.L. n. 70/2011 (convertito con modificazioni dalla Legge n. 106/2011), dispone infatti espressamente che la sanzione prevista dall’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 non si applichi nel caso di omesso carente o tardivo versamento delle somme dovute sulla base degli avvisi di accertamento esecutivi. Disposizione inequivocabile e destinata a porre fine ad una infondata e censurabile prassi dell’amministrazione che, secondo la Corte, deve ritenersi “sicuramente applicabile anche ad accertamenti notificati in data antecedente in forza dell’art. 3 del D.Lgs. n. 472/1997 che, ispirandosi al principio del favor rei, stabilisce che se in un momento successivo a quello in cui è stato commesso il fatto viene prevista, attraverso una modifica legislativa, una sanzione più tenue, oppure viene meno del tutto la norma sanzionatoria, il contribuente deve potere beneficiare del nuovo regime anche se al momento in cui ha commesso il fatto quel determinato comportamento era espressamente sanzionato impone in ogni caso di ritenere che l’art. 13 non si applica in caso di omesso versamento nei termini indicati degli avvisi di accertamento”. Sotto tale profilo appare davvero poco giustificabile, anche in termini di unitarietà complessiva del sistema, la prassi seguita nel caso in esame dall’amministrazione che, in presenza di un accertamento esecutivo, ritiene non dovuta la sanzione correlata all’omesso versamento delle imposte accertate e non versate, mentre ritiene comunque esigibile ed irrogabile detta sanzione in ipotesi di accertamento non esecutivo.

La rilevanza della sentenza: il superamento del precedente della Cassazione in materia

La sentenza commentata, con argomentazioni più apprezzabili sia nel metodo che nel merito, supera il precedente in proposito (Cass. n. 29299/2018) della medesima Corte di legittimità, che aveva invece escluso l’assorbimento della sanzione per omesso versamento in quella di omessa fatturazione. Tale pronuncia si riferiva ad un caso nel quale l’amministrazione aveva emanato un avvi-so di contestazione recante sanzioni per omessa fatturazione, omessa tenuta delle scritture contabili ed omesso versamento dell’imposta. La società aveva definito l’avviso con riferimento alle prime due contestazioni, impugnandolo invece con riguardo alla debenza dell’ulteriore sanzione per omesso versamento, in precedenza già ravveduta. La Suprema Corte aveva respinto il ricorso della società riconoscendo invece che tale ultima violazione avesse una “propria configurazione autonoma” poiché incide negativamente sul versamento del tributo ed arreca pregiudizio all’incasso erariale. Invero, il caso affrontato presentava molteplici aspetti problematici, anche in ragione del fatto che il divieto di cumulo veniva invocato dal contribuente al fine di ottenere il rimborso di quanto versato in sede di ravvedimento operoso per la violazione di omesso versamento. Seppure in tale contesto, l’assunto della Corte secondo il quale pur in presenza di una violazione assorbente a monte (mancata fatturazione), l’omesso versamento restasse autonomamente configurabile in quanto incidente sul versamento del tributo e suscettibile di arrecare un danno all’erario, rappresentava in sostanza un orientamento favorevole al cumulo. Nella sentenza oggetto di commento il giudice di legittimità, escludendo invece qualsiasi riferimento alla rilevanza del danno arrecato all’amministrazione dal mancato versamento delle imposte, oggetto invece di richiamo anche in altri precedenti, ha riconosciuto che lo stesso non è elemento idoneo né tantomeno convincente, al fine di giustificare il cumulo delle sanzioni. Da questo punto di vista la recente sentenza, eliminando ogni riferimento all’esigenza di evitare “un sicuro deficit di cassa”, ha dunque il merito di fornire una soluzione derivante da un convincente esame sistematico dell’impianto punitivo concepito con la riforma introdotta dai Decreti legislativi n. 471/1997 e n. 472/1997. La nuova sentenza, costituendo un apprezzabile espressione di nomofilachia da parte della Corte, si candida dunque a rappresentare un sicuro punto di riferimento per la successiva stabilità dell’orientamento che esclude il cumulo e supera quindi le incertezze che potevano derivare dal proprio precedente. Nell’ottica del diritto punitivo, al cui ambito appartengono pacificamente le sanzioni tributarie, si tratta infatti di capire, non quale sia il danno arrecato all’Amministrazione dal trasgressore, ma piuttosto se la dosimetria sanzionatoria della violazione prodromica, nella sua misura edittale, sia già stata concepita sul presupposto che ad essa seguono inevitabilmente gli ulteriori inadempimenti strettamente conseguenziali al primo.

Considerazioni conclusive

Le conclusioni del giudice di legittimità devono essere accolte favorevolmente in quanto scaturenti da una corretta analisi delle norme e da un’interpretazione sistematica della disciplina sanzionatoria che, tenendo in debito conto l’intero impianto punitivo contemplato dal D.Lgs. n. 471/1997, rende manifesta l’infondatezza giuridica della tesi ribadita in giudizio dall’Agenzia. A parere di chi scrive la tesi dell’Agenzia appariva e deve ancora oggi essere considerata contraria non solo all’interpretazione sistematica dell’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997, inserito nel titolo appositamente dedicato alle violazioni afferenti alla riscossione di imposte risultanti dalla dichiarazione, ma anche alle finalità generali delle norme previste dal D.Lgs. n.471/1997, emanato in attuazione della Legge delega n. 662/1996. Sotto tale profilo, l’art. 3, comma 133, lett. q), della Legge delega disponeva la revisione dell’entità delle sanzioni al fine di garantire una migliore commisurazione all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni così da assicurare uniformità di disciplina per identiche violazioni anche se riferite a tributi diversi, tenendo conto delle previsioni punitive dettate dagli ordinamenti europei, nonché a razionalizzare e semplificare le sanzioni in materia di riscossione in precedenza contemplate dal D.P.R. n. 602/1973 al fine di una loro revisione complessiva. La stessa Relazione illustrativa dello schema di Decreto legislativo recante principi generali in materia di sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie precisava che l’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997, avendo una portata di carattere generale, tale da comprendere tutti gli omessi versamenti di imposte dichiarate, non richiedeva più l’elencazione dettagliata che appariva nella previgente legislazione di cui all’art 92 del D.P.R. n. 602/1973. E ciò in quanto trattasi “di disposizione introdotta nell’ambito di una nuova regolamentazione organica delle sanzioni tributarie, al fine di conformare al modello di illecito originariamente contemplato in materia di imposte sui redditi (omesso versamento diretto di imposte dichiarate) tutte le fattispecie suscettibili di verificarsi negli altri settori impositivi (IVA in primo luogo), va da sé che la tipologia di illecito resta la stessa della disposizione precedente (art. 92 del D.P.R. n. 602/1973): tutte le ipotesi di omesso o tradivo versamento di imposte dichiarate”. Le conclusioni del giudice di legittimità risultano quindi conformi ad un’interpretazione sistematica delle norme tese ad uniformare in maniera organica le sanzioni amministrative tributarie. Ragionare diversamente, sovrapponendo fattispecie illecite e inasprendo il trattamento sanzionatorio così da massimizzare il gettito delle sanzioni, non solo rinnega lo spirito e le finalità della riforma del sistema sanzionatorio, ma soprattutto finisce per “assegnare, più o meno consapevolmente, ad un istituto (la sanzione) lo scopo di un altro (tributo)”. Piuttosto, la linearità del ragionamento unanimemente suggerito dalla dottrina ed ora condiviso dalla Suprema Corte è tale da chiedersi per quale motivo si siano dovuti percorrere tre gradi di giudizio per arrivare ad un risultato condivisibile, ma che avrebbe dovuto ancor prima ritenersi del tutto scontato. La risposta sta nella persistente impermeabilità dell’Amministrazione, o comunque di molti degli Uffici quotidianamente coinvolti nell’irrogazione ed applicazione delle sanzioni amministrative tributarie alla convinta ricezione della marca squisitamente (ed esclusivamente) afflittiva che ne deve governare l’utilizzo. L’assorbimento nella violazione più grave di quella minore già in essa ricompresa e valutata anche ai fini della dosimetria sanzionatoria costituisce infatti una costante del diritto punitivo; ma urta invece con la logica che vischiosamente continua ad identificare nella sanzione pecuniaria uno strumento di gettito aggiuntivo ed automatico a latere del tributo. A più di venti anni dalla riforma è forse arrivato il tempo di abbandonare questa impostazione, anche al fine di rendere più agevole il percorso di compliance al quale il contribuente sempre più di frequente è stimolato.

Prof. avv. Roberto Cordeiro Guerra, Ordinario Diritto Tributario Università Firenze, avvocato tributarista cassazionista

Avv. Rita Brami, avvocato tributarista cassazionista

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