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Le finalità del CNF come fonte dell’obbligo contributivo

Prof. avv. Francesco D’Ayala Valva

Ordinamento tributario, riforme e professione

Il contributo riscosso dal CNF costituisce un tributo, finalizzato alla copertura delle spese relative al proprio funzionamento. Tutti gli avvocati, per esercitare legittimamente la professione, devono essere tutti iscritti nei rispettivi albi. Il contributo è dovuto in conseguenza alla richiesta di iscrizione e permanenza negli albi professionali. La misura del contributo è legittimamente determinata in relazione elle spese di funzionamento.

Sommario: 1) Premessa; 2) Il contributo come quota associativa; 3) Contributo e tributo; 4) Il tributo e la giurisprudenza delle supreme corti; 5) Le migrazioni dell’Albo Speciale; 6) Formazioni sociali ed obbligo contributivo; 7) Contributo, costi e destinazione del prelievo.

  1. Premessa.

Tutto nasce da una ribellione ad una richiesta di un contributo al CNF. Mi viene in mente la rivoluzione americana contro il tributo sul tea (1773). Ma quello era un tributo imposto da un Re lontano, Giorgio III, e per gli interessi della corona inglese. Un vero e proprio prelievo destinato a varcare l’atlantico e non per sopperire alle esigenze delle colonie americane. In questo caso la ribellione era contro l’organo rappresentativo forense CNF, nei cui confronti alcuni avvocati, non abilitati al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori, negavano il diritto di pretendere un contributo annuale previsto dall’art. 14, D.Lgs.Lgt. n. 382 del 1944. Ritenevano di essere in presenza di un rapporto contrattuale e quindi “non pago in quanto tu non mi dai alcun servizio”. In particolare, poiché tra le funzioni, attribuite al CNF, vi era quella di gestire l’albo degli avvocati abilitati alla difesa dinanzi alle magistrature superiori, la mancata richiesta di inserimento in un tale albo avrebbe comportato l’esclusione della nascita del dovere contributivo. In via subordinata negavano la legittimità della richiesta in relazione alla mancata indicazione della determinazione del quantum, ritenendo più corretta la pretesa di un contributo riferito al singolo in relazione al costo diretto che il CNF fosse costretto ad affrontare in relazione al servizio sollecitato.

  1. Il contributo come quota associativa.

Il ricorso iniziale al giudice di pace era la prova dell’impostazione originaria di coloro che rifiutavano di versare il contributo. Il presupposto dell’istanza rivolta al giudice ordinario era la natura privatistica dello scambio tra servizio e pagamento dello stesso. Il CNF eccepiva la carenza di giurisdizione e presentava ricorso alle SS.UU. della Corte di Cassazione, per regolamento preventivo di giurisdizione. Nelle difese il CNF rilevava che la controversia dovesse essere attribuita alla giurisdizione del giudice tributario, stante la nuova formulazione dell’art. 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, il quale assegna a tale giurisdizione i tributi di ogni genere e specie comunque denominati. La Corte (ord. n. 1782/2011, richiamata espressamente nell’ordinanza n. 30960/2021) ha, innanzi tutto, affermato che anche se l’art. 14, D.Lgs. Lgt. n. 382 del 1944, denomina “contributo” la prestazione dovuta dagli iscritti nell’albo per le spese del funzionamento del CNF, tale denominazione è irrilevante al fine di determinare o escludere la natura tributaria della prestazione. Approfondendo le caratteristiche dello specifico prelievo ha considerato che queste sono analoghe a quelle, che nel linguaggio tipico del diritto tributario, vengono considerate proprie della “Tassa”. In questo senso ha considerato analoga la prestazione in esame con le altre espressamente previste nello stesso Decreto Luogotenenziale ed indicate come tasse; tali sono la tassa annuale, la tassa per l’iscrizione nel registro dei praticanti e per l’iscrizione all’albo, e la tassa per il rilascio di certificati e dei pareri per la liquidazione degli onorari. Volendo dare una identificazione descrittiva del prelievo, al fine di distinguerlo dal generico termine di tassa, la Corte lo configura espressamente come una “quota associativa”, dovuta ad un ente di appartenenza. Il pagamento della quota deriva dall’iscrizione e la successiva permanenza in tale albo, la quale, a sua volta, costituisce una condicio sine qua non per il legittimo esercizio della professione forense. Conclude affermando che il sistema normativo riconosce al CNF una potestà impositiva rispetto alla prestazione che il singolo avvocato deve assolvere obbligatoriamente per svolgere la propria attività.

  1. Contributo e tributo.

Fatte queste considerazioni sulle caratteristiche della “tassa”, la Corte riconosce che la rilevata doverosità della prestazione costituisce un primo elemento che caratterizza un “tributo”. Un secondo elemento lo ravvisa nell’ammontare dell’importo preteso, che non è commisurato al costo del servizio reso o dal vantaggio della prestazione erogata, bensì alle spese necessarie al funzionamento dell’ente, al di fuori di un rapporto sinallagmatico con l’avvocato iscritto nell’albo. Un altro elemento viene identificato nel collegamento con la spesa per il mantenimento di un ente, pur se privato, la cui rilevanza pubblica è prevista dalla legge. Si tratta di un ente delegato dall’ordinamento al controllo dello specifico albo, nell’esercizio della funzione pubblica di tutela dei cittadini, potenziali fruitori delle prestazioni professionali degli iscritti, e sulla la legittimazione di questi ultimi alle predette prestazioni. Viene altresì evidenziato il rapporto tra prestazione richiesta ed il presupposto economicamente rilevante, costituito dal legittimo esercizio della professione, per la quale è condizione l’iscrizione in un determinato albo. La Corte ha identificato, nel contributo richiesto dal CNF, gli elementi che la giurisprudenza richiama per riconoscere la natura tributaria di un prelievo.

  1. Il tributo e la giurisprudenza delle supreme corti.

Sulla correttezza di una tale posizione e per la conferma della definitiva identificazione di taluni elementi qualificanti la natura di una prestazione imposta quale tributo soccorrono le più recenti sentenze delle supreme corti. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 27, depositata il 28 gennaio 2022, pubblicata il 2 febbraio 2022, ha confermato che gli elementi, che connotano indefettibilmente la prestazione tributaria, sono individuabili in una disciplina legale diretta, in via prevalente, a determinare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, che non integri una modifica di un rapporto sinallagmatico, e nella destinazione delle risorse, connesse a un presupposto economicamente rilevante e derivante dalla suddetta decurtazione, a sovvenire a pubbliche spese. La Corte di Cassazione (SS.UU. n. 5418 del 26/2/2021) sulla stessa linea afferma che i tratti identificativi del tributo sono: a) la matrice legislativa della prestazione imposta, in quanto il tributo nasce direttamente in forza della legge, risultando irrilevante l’autonomia contrattuale (Corte Cost., n. 58 del 2015); b) la doverosità della prestazione (Corte Cost., n. 73 del 2005) che comporta un’ablazione delle somme con attribuzione delle stesse ad un ente pubblico (Corte Cost., n. 37 del 1997); c) la circostanza che i soggetti tenuti al pagamento del contributo non possono sottrarsi a tale obbligo e la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti; d) il nesso con la spesa pubblica, nel senso che la prestazione è destinata allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario dell’ente impositore (Corte Cost., n. 11 del 1995).

  1. Il rinvio al giudice naturale.

L’ordinanza della Corte di Cassazione, n. 6601 del 23 marzo 2011, in un originario giudizio instaurato sulla medesima contestazione del contributo vantato dal CNF, ha confermato l’inerenza della causa alla materia tributaria e dichiarato la giurisdizione tributaria. Ha rinviato al giudice naturale per il merito di ogni questione concernente la proponibilità concreta della originaria domanda o l’estensione dei poteri del giudice nella ipotesi di contestazioni relative alla legittimità di atti generali, che le Commissioni possono disapplicare. Su queste due originarie ordinanze di rinvio (nn. 1782 e 6601 del 2011) sono proseguiti i giudizi dinanzi alle commissioni tributarie con esiti disuguali dinanzi ai giudici di primo grado e di rigetto del ricorso dinanzi al giudice di appello. Da qui i ricorsi degli avvocati dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione, insoddisfatti degli esiti dei giudizi. La tesi sostenuta dai ricorrenti riguardava il contenuto dell’art. 14 del D.Lgs. n. 382 del 1944, nella parte in cui identificava il soggetto passivo del tributo. Affermavano che il contributo era dovuto esclusivamente dagli iscritti nell’albo dei patrocinanti presso le giurisdizioni superiori, in quanto il CNF non fornisce servizi amministrativi agli avvocati non cassazionisti. L’estraneità dei servizi propri del CNF agli avvocati non cassazionisti costituiva il limite per la nascita dell’obbligo alla contribuzione. L’enunciato ripropone la stessa motivazione con la quale originariamente i ricorrenti si erano rivolti al giudice di pace: non mi dai alcun servizio e, quindi, non ti devo corrispondere alcun contributo. Il contenuto dei ricorsi prescindono dalle statuizioni della Corte del 2011, sopra ricordate, sulla natura tributaria del prelievo e dal contesto nel quale opera, per legge, il CNF. La tesi propugnata non è in armonia con le istanze espresse dalla Carta Costituzionale, in quanto non sussiste una rigida correlazione tra godimento dei benefici prodotti dalle pubbliche istituzioni ed il pagamento del tributo. Per effetto della solidarietà sociale il dovere di contribuzione non può essere concepito come conseguenza di una prestazione da parte dell’ente pubblico.

  1. Le migrazioni dell’Albo Speciale.

La Corte, con le ordinanze nn. 30960 e 30963/2021, ha dichiarato che una lettura sistematica della norma orienta nel ritenere che il contributo sia dovuto da tutti gli iscritti all’albo professionale. L’affermazione è corretta, ma una maggiore attenzione alla successione delle leggi nel tempo avrebbe dato più forza alla stessa dichiarazione. L’art. 1 del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito in legge 22 gennaio 1934, n. 36, sancisce che “nessuno può assumere il titolo né esercitare le funzioni di avvocato o di procuratore se non è iscritto nell’albo professionale” tenuto presso ogni tribunale. Il successivo primo comma dell’articolo 33 prescrive che gli avvocati, per essere ammessi al patrocinio davanti alle Magistrature superiori, debbono essere iscritti in un albo speciale. Il quarto comma del medesimo articolo precisa che l’avvocato non può essere iscritto, né rimanere nell’albo speciale se non è iscritto nell’albo del tribunale di residenza. La tenuta dell’albo speciale era affidata al Direttore del sindacato nazionale degli avvocati, in base alla disposizione contenuta nell’ultima parte del primo comma dell‘art. 33 del R. D.L. n. 1578/1944 cit. Successivamente le professioni ordinistiche sono state regolate dal D.Lgs. 318 del 19 ottobre 1944, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 23 novembre 1944 n. 85. All’art. 1 si legge: ”L’ammissione al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori … è disposta dalla Corte Suprema di Cassazione”. Nell’art. 2, comma 1, si legge: “La Cancelleria della Corte suprema di cassazione comunica l’ammissione al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori al professionista ed al Consiglio dell’Ordine al quale questi appartiene e tiene aggiornato l’elenco degli avvocati ammessi al patrocinio medesimo”. Al terzo ed ultimo comma del medesimo art. 2 si legge: “Dell’elenco tenuto dalla Cancelleria può prendere visione chiunque ne faccia richiesta”. Dalla data della pubblicazione della norma sulla Gazzetta Ufficiale del 23 novembre 1944 l’elenco o albo degli avvocati cassazionisti doveva essere tenuto esclusivamente dalla cancelleria della Corte di cassazione. Nella Gazzetta Ufficiale del 23 dicembre 1944 è stato pubblicato il D.Lgs. lgt. n. 382 del 23 novembre 1944, relativo agli ordini e collegi professionali. In particolare, come hanno concordemente affermato le due ordinanze in commento, l’art. 14 prevede: “Le commissioni predette (Commissioni centrali) esercitano le attribuzioni stabilite dagli ordinamenti professionali vigenti ed inoltre danno parere sui progetti di legge e di regolamento che riguardano le rispettive professioni e sulla loro interpretazione, quando ne sono richiesti dal Ministero per la grazia e giustizia. Determinano inoltre la misura del contributo da corrispondere annualmente dagli iscritti all’albo per le spese del proprio funzionamento”. Dalla data del 23 dicembre 1944 tutti gli avvocati, in quanto iscritti nell’albo tenuto dalla Commissione centrale erano obbligati a corrispondere a tale organo un contributo annuale per le spese del funanziamento. Dal 1944 due norme regolavano la tenuta di due distinti albi: tutti gli avvocati dovevano essere iscritti presso l’albo tenuto dal tribunale di residenza, per gli avvocati cassazionisti l’albo era presso la cancelleria della Corte di Cassazione. La Commissione Centrale aveva il potere di imporre a tutti gli avvocati iscritti nel relativo albo un contributo necessario al finanziamento dello stesso organo. Il contributo non era finalizzato ad uno specifico servizio richiesto o offerto al singolo avvocato iscritto nell’albo, ma per il mantenimento dell’ente appositamente creato a tutela della professione. Una finalità pubblicistica a tutela della professione degli avvocati. Solo successivamente il D.Lgs. C.p.S. n. 6 del 21 giugno 1946, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 142 del 28 giugno 1946 ha disposto: “ La tenuta dell’albo speciale degli avvocati ammessi al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori è affidata al Consiglio Nazionale Forense”. Alle originarie funzioni della Commissione centrale, poi CNF, è stata aggiunta la tenuta dell’”Albo speciale “, già in precedenza di competenza esclusiva della Cancelleria della Corte di Cassazione. Nessuna variazione sulla soggettività passiva al contributo, da parte di tutti gli avvocati, è potuta avvenire a seguito di un ulteriore compito attribuito al CNF. Da qui l’infondatezza di una diversa lettura del citato articolo 14, propugnata da alcuni avvocati, non iscritto nell’albo delle magistrature superiori. E’ pure infondata l’ipotesi di limitare il contributo in relazione alla singola richiesta e nella misura del relativo costo del servizio.

  1. Formazioni sociali ed obbligo contributivo.

L’origine e l’evoluzione del contributo al CNF evidenziano la sua speciale doverosità nei confronti di una formazione sociale riconosciuta dalla legislazione, nel rispetto dei principi generali di solidarietà ed autoresponsabilità. Doverosità della prestazione che fa confluire il prelievo nella ampia figura di tributo, ormai codificata nell’art. 2 del novellato art. 2, D.Lgs. n. 546 del 1992. Alcune conseguenti riflessioni emergono dal raffronto con il contenuto degli articoli 2, 3, 4 e 41 della Carta Costituzionale. La Repubblica, fondata sul lavoro, riconosce la funzione delle formazioni sociali, in quanto idonee al pieno sviluppo della personalità umana, nell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; nel contempo richiede che tali doveri inderogabili di solidarietà si concretizzino nella effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. L’attività economica, pur se libera, deve essere indirizzata e coordinata, dalla legge, a fini sociali. Da qui la possibile distinzione tra le formazioni sociali riconosciute: una prima indirizzata verso una generica funzione di sviluppo della personalità umana, tesa alla solidarietà come espressione libera, e non normativamente imposta, della socialità umana ed a garantire la tutela degli interessi diffusi. Una seconda, nell’ambito della prima, costituita da organizzazioni politiche, economiche e sociali ove, progressivamente, si richiede un più specifico rispetto della doverosità e della responsabilità dell’impegno sociale, concorrendo al progresso materiale o spirituale della società. Nell’art. 4 può rintracciarsi un’aspirazione comune a quella delle altre disposizioni costituzionali, che prevedono obblighi a carico dei cittadini, come gli artt. 23, 52, 53 2 54 Cost.; in questo senso può identificarsi un fondamento della possibilità della legge di imporre prestazioni ed altri obblighi riconducibili all’idea di una collaborazione civica. In questo contesto ogni attività economica può essere scelta liberamente dal singolo, che assume su di sé la responsabilità di identificare i contorni, i tempi e le modalità di attuazione; per quello che qui interessa, con il coordinamento normativo del rispetto di fini sociali. L’insieme di queste disposizioni confermano la legittimità costituzionale dei vincoli presenti nell’espletamento della professione forense.

  1. Contributo, costi e destinazione del prelievo.

Nelle ordinanze in commento la riscontrata legittimità costituzionale del contributo del CNF è stata integrata da ulteriori riflessioni sui compiti e le funzioni, riscontrate di interesse generale per tutta la categoria professionale degli avvocati. Queste attività sono state riconosciute meritevoli del diritto ad una contribuzione da parte degli avvocati, in quanto relative a spese sono considerate effettuate con fini pubblici. Questo profilo fa considerare la diversità dei prelievi, ora compresi sotto il titolo di tributi. Il contributo degli avvocati è legittimato dalle finalità pubblicistiche riconosciute alle attività proprie del CNF, determinate dalla legge. Sono numerosi i prelievi finalizzati ad un dichiarato interesse pubblico, che trascinano ed identificano il soggetto attivo. La natura pubblica o privata di quest’ultimo, in questi casi, perde la rilevanza, risultando più pregnante la finalità del prelievo riconosciuto dalla normativa. Sulla destinazione di un contributo ad una pubblica spesa la Corte Costituzionale, con sentenza n. 269/217, ed ora la Corte ti Cassazione, con ordinanza n. 10577/2020, hanno affermato che i contributi costituiscono risorse per il funzionamento di un organo destinato a svolgere finalità di tutela di interessi pubblici e sono riconducibili alle categorie di entrate tributarie statali, qualora soddisfino i principali requisiti. Questo tipo di imposizione si differenzia da quella tipica, nella quale è prevista principalmente la presenza attiva dello Stato o degli altri enti previsti nell’art. 119 Cost.. Si tratta di una prestazione patrimoniale dovuta indipendentemente dal fatto che l’attività dell’ente abbia riguardato specificatamente il singolo soggetto obbligato, configurandosi come servizio indivisibile, non correlato all’attività dell’ente in termini di vantaggio goduto o di costo causato da parte del soggetto passivo. Gli scopi dell’attività giustificano il prelievo, dichiaratamente ed esclusivamente destinato a sopperire i costi di gestione dell’ente o come dice la norma “per le spese del proprio funzionamento”. Per quanto riguarda l’ultima questione sull’ammontare del contributo determinato dal CNF, la Corte ha sviluppato un preciso percorso argomentativo, partendo dalla possibilità che possa essere determinato autonomamente. Ha considerato che non è compito necessario della legge specificare un limite minimo o massimo della prestazione richiedibile. Anche qualora i criteri, preordinati a circoscrivere la potestà impositiva non siano espressi dall’enunciato legislativo, la riserva di legge è rispettata quando, dal contesto della disciplina di cui esso è parte integrante, si possano evincere elementi o riferimenti comunque capaci di delimitare l’attività dell’organo che definisce il quantum dell’onere imposto. Il principio enunciato supera l’oggetto del giudizio e potrà spaziare su tutte le misure delle contribuzioni, non specificatamente determinate, ma costituzionalmente legittimate dai previsti fini pubblici.

Fonte: GT domenica 19,30

Prof. avv. Francesco D’Ayala Valva, Ordinario Diritto Tributario Università di Roma, avvocato tributarista cassazionista

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