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L’evoluzione della giurisprudenza UE sui rimedi sanzionatori contro le frodi IVA

Avv. Clino De Ieso

Giurisprudenza Corte di Giustizia europea​

Negli ultimi interventi della Corte di Giustizia, fra cui la sentenza del 27 ottobre 2022, relativa alla causa C-641/21, si intravede un invito rivolto agli Stati dell’Unione ad introdurre nel tessuto normativo interno delle disposizioni che prevedano un sistema sanzionatorio a carico dei soggetti passivi che partecipino sia pure indirettamente, ma consapevolmente, alla frode. Tale invito sembra giustificato dalla necessità che la regola del “sapeva o avrebbe dovuto sapere” - creata dalla stessa giurisprudenza europea - debba atterrare su un base giuridica più solida, individuata dai giudici europei nell’art. 273 della Direttiva 2006/112/CE, per una effettiva attuazione dei principi di proporzionalità e, soprattutto, di legalità.

La strategia europea della lotta alle frodi IVA è diventata essenzialmente appannaggio della Corte di Giustizia che, nel corso del 2022, ha proseguito nella creazione di concetti e principi che si ergono ad “impalcatura” sistematica delle decisioni dei giudici nazionali. La ragione di questa continua e crescente elaborazione giurisprudenziale è di tutta evidenza, ossia, la Corte, di fronte al dilagare delle frodi c.d. carosello, ha preso atto dell’assenza nella Direttiva 2006/112/CE di specifiche norme che possano permettere alle Amministrazioni fiscali di sanzionare, oltre a coloro che hanno ideato e realizzato la frode, gli altri soggetti che indirettamente consentono la realizzazione delle operazioni fraudolente. Gli ultimi interventi della Corte di Lussemburgo che saranno più avanti analizzati, fra cui la sentenza del 27 ottobre 2022, relativa alla causa C-641/21, sembrano adottare un approccio meno tutelante per gli operatori in malafede e, invece, moderatamente garantista per quelli in buona fede: ai quali viene negata la detrazione, qualora la loro condotta sia ritenuta non diligente nell’adozione di controlli preventivi al fine di non essere coinvolti nella frode. Ben si scorge in queste decisioni un invito agli Stati dell’Unione, che non va sottovalutato, ad introdurre delle sanzioni diverse dalla misura dell’indetraibilità dell’imposta, anch’essa essenzialmente sanzionatoria, applicata dall’ente impositore al soggetto passivo che partecipi consapevolmente alle operazioni illecite. Da qui sembra emergere la necessità che la regola del “sapeva o avrebbe dovuto sapere”, creata dalla stessa giurisprudenza europea, debba atterrare su una base giuridica più solida individuata dalla Corte nell’art. 273 della Direttiva 2006/112/CE. Si tratta di una esigenza, evidentemente ineludibile ed improcrastinabile, che tiene conto della natura di sanzione delle misure antifrode da cui discende l’obbligo per i legislatori nazionali di assicurare l’effettiva attuazione dei principi di proporzionalità e, soprattutto, di legalità.

Valore generale (non più residuale) dell’art. 273 della Direttiva

Il tema della sentenza MC del 13 ottobre 2022, causa C-1/21, è la responsabilità personale dell’amministratore che ha sottratto alla società le risorse finanziarie per l’assolvimento delle imposte, compresa l’IVA. La norma nazionale della Bulgaria prevede, in ambito fiscale, un meccanismo di responsabilità solidale per i debiti erariali della persona giuridica applicabile ai soggetti che prendono le decisioni essenziali per la gestione dell’impresa. In particolare, nell’ipotesi di infruttuosità dell’azione esecutiva nei confronti della società, l’ente impositore è legittimato a rivalersi in via sussidiaria su coloro che governano in malafede l’impresa contribuendo alla sua incapacità a pagare le imposte. Ciò presuppone l’esistenza di un nesso causale fra gli atti compiuti dall’amministratore e l’impossibilità, per l’Autorità fiscale, di recuperare gli importi dovuti dalla società. Nel caso di specie è indubbio che tale responsabilità sia attribuibile all’amministratore, il quale ha decuplicato il valore del proprio compenso in base a nuovi contratti che, però, non sono stati prodotti in giudizio. E che la condotta dell’amministratore sia in malafede è reso evidente dalla modalità del pagamento dei compensi trasferiti prima ad un avvocato che, agendo per conto della società, ha successivamente versato le somme sul conto intestato alla moglie dell’amministratore. Con riferimento a questa fattispecie, l’Avvocato Generale e la Corte di Giustizia sono concordi nel ritenere proporzionata la disposizione interna che, a fronte di imposte non corrisposte dalla società per quasi due milioni di euro, consente all’ente impositore di recuperare dall’amministratore non tutti gli importi ma soltanto i tributi, con i dipendenti interessi moratori, corrispondenti alla riduzione patrimoniale subita dalla società. Il disaccordo è, invece, sulla natura della responsabilità solidale ritenuta dall’Avvocato Generale una “regola procedurale meramente nazionale volta a garantire il gettito fiscale sulla quale il diritto dell’Unione non incide” (punto 1). Al contrario, secondo la Corte, tale “meccanismo di responsabilità solidale (...) contribuisce ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e/o a evitare le evasioni, ai sensi dell’art. 273 della Direttiva IVA, conformemente all’obbligo sancito all’art. 325, paragrafo 1, TFUE” (punto 61). Il richiamo a queste due norme è una chiara e forte indicazione destinata ai legislatori nazionali, che sono chiamati ad utilizzare le misure di cui all’art. 273 della Direttiva per contrastare i comportamenti fraudolenti o illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Aiuta, in quest’ottica, la flessibilità della norma che, “al di fuori dei limiti (...) fissati”, non precisa “né le condizioni né gli obblighi che gli Stati membri possono prevedere e conferiscono dunque a questi un margine discrezionale circa i mezzi idonei ad assicurare la riscossione integrale dell’IVA dovuta sul loro territorio e a evitare le evasioni” (punto 69). Adottando questa nuova prospettiva, l’anzidetto art. 273 trascende il suo aspetto formale e residuale - rintracciabile nella sua collocazione all’interno della Direttiva in fondo alle disposizioni che regolano “gli obblighi dei soggetti passivi e di alcune persone non soggetti passivi” - per divenire una norma che acquisisce un valore generale di ampia portata favorendo, dunque, l’ingresso nel sistema IVA di misure nazionali sanzionatorie funzionali alla tutela della riscossione dell’imposta4. Ecco perché la Corte, in difformità dall’Avvocato Generale, rivendica la sua competenza a rispondere alle domande pregiudiziali atteso che la norma bulgara, seppur non sia stata introdotta per recepire le forme di responsabilità solidale previste dalla Direttiva, entra nell’ordinamento europeo grazie alla possibilità di aprire - in via interpretativa - una strada di accesso nell’art. 273 della Direttiva.

Inderogabilità dei criteri di collegamento per il luogo di tassazione

Per strano che possa sembrare, ma non lo è affatto, la motivazione della sentenza in commento termina con un richiamo all’art. 273 della Direttiva che, almeno leggendo i precedenti 27 punti della decisione, sembra porsi al di fuori del quesito pregiudiziale: con il quale si è chiesto alla Corte di stabilire se, nel caso di frode carosello, le norme sostanziali in materia di territorialità IVA possano essere derogate dal Fisco austriaco. Se fosse così, nella specie, l’ente impositore potrebbe spostare il luogo di imposizione in Austria, nonostante la Direttiva preveda che il luogo della medesima operazione sia in Germania. Stando a quanto si apprende dalla narrativa della sentenza in esame, il fornitore con sede in Austria “sapeva o avrebbe dovuto sapere” che le quote di emissioni del gas - cedute al cliente tedesco che “ha partecipato (...) in qualità di missing trader (...) a una frode in materia di IVA di tipo ‘carosello’” - “sarebbero state utilizzate per evadere l’IVA” in Germania (punto 13). Questa è la tesi del Fisco austriaco, totalmente convinto del fatto che le operazioni siano qualificabili come cessioni intraunionali per le quali, dunque, dovrebbe valere l’insegnamento della sentenza Italmoda secondo cui gli effetti della frode oltrepassano i confini dello Stato nella quale è compiuta l’evasione. Sicché, al fornitore austriaco, consapevolmente coinvolto nella catena di operazioni illecite, può essere negata l’esenzione. Non è sfuggito al difensore del contribuente il punto debole del ragionamento dell’Autorità tributaria, che è viziato all’origine in quanto i trasferimenti di quote di gas rientrano nella categoria delle prestazioni di servizi. A questo punto sorge l’interrogativo, sollevato dal giudice nazionale, riguardo all’estensione “per analogia” del precedente Italmoda - esclusivamente focalizzato sulle cessioni intracomunitarie - alle prestazioni di servizi transfrontaliere. La Corte nega tale estensione per una serie di ragioni sistematiche, che sono ricavabili dalle norme relative alla territorialità IVA delle operazioni intraunionali contraddistinta, com’è noto, da due distinti regimi giuridici, uno per le cessioni, l’altro per i servizi. Con la sostanziale differenza che, per le cessioni, la competenza fiscale è distribuita fra lo Stato di origine (partenza del bene) e lo Stato di destinazione (arrivo del bene). Mentre, per i servizi, è solo uno lo Stato che dispone della competenza, cioè, quello in cui è stabilito il cliente, se soggetto passivo. Trattasi di una distinzione che non è un optional, ma costituisce l’insuperabile fattore ostativo all’applicabilità della sentenza Italmoda ai servizi intracomunitari con la naturale conseguenza che, nella specie, il Fisco austriaco non ha alcun potere impositivo per assoggettare a tassazione le operazioni la cui competenza fiscale è soltanto dell’Autorità tributaria tedesca. Posta tale premessa, la Corte ne ha fatto discendere, come logico corollario, “che il luogo di una prestazione di servizi non può essere modificato in violazione della chiara lettera dell’art. 44 della Direttiva IVA per il motivo che l’operazione considerata è viziata da una frode in materia di IVA” (punto 52). Dopo questa affermazione, la Corte richiama l’art. 273 citato precisando, a riguardo, che “spetta, in linea di principio, alle Autorità fiscali effettuare i controlli necessari presso i soggetti passivi al fine di rilevare irregolarità e evasioni in materia di IVA nonché infliggere sanzioni al soggetto passivo che ha commesso dette irregolarità o evasioni” (punto 53). Quale può essere la ragione che ha spinto la Corte a formulare questa precisazione, che appare un corpo estraneo alla motivazione della sentenza? Forse il timore che la decisione possa prestare il fianco a possibili fraintendimenti ed equivoci laddove ritiene inderogabili, anche nel caso di frode, i criteri di collegamento indicati dalla Direttiva per individuare la rilevanza territoriale delle operazioni intracomunitarie. Ma affermare che le condotte fraudolenti devono essere contrastate dai legislatori nazionali con le misure di cui all’art. 273 della Direttiva, anziché attribuendo al Fisco il potere di derogare alle regole sostanziali in materia di territorialità o base imponibile, non significa creare delle zone di impunità per gli operatori diversi dai missing trader e neppure precludere agli enti impositori la facoltà di recuperare l’imposta nei confronti di tutti i soggetti partecipanti alla frode. Tant’è che, come osservato in dottrina, la rilevanza territoriale dei servizi in Germania non impedisce al Fisco tedesco “di contestare al fornitore austriaco di non aver posto in essere le necessarie cautele in ossequio del noto principio giurisprudenziale del ‘sapeva o avrebbe dovuto sapere’”. Fra l’altro, “questa (...) ipotesi porterebbe al ristoro del danno effettivamente subito dallo Stato di destinazione (Germania)”. Diversamente, ove la pretesa erariale fosse azionata dall’ente impositore austriaco, si assisterebbe al “paradosso che lo Stato di origine si vedrebbe attribuito il ristoro di un danno inesistente.”. Si può, inoltre, riflettere sulla sostenibilità di un recupero dell’Austria fondato sull’idea che il cliente tedesco, in quanto missing trader, possa perdere la qualifica di soggetto passivo. “Se così fosse, allora, lo Stato membro di origine [cioè, l’Austria] potrebbe contestare al fornitore che l’operazione non rientri nel paradigma dell’art. 44 e che, di conseguenza, l’IVA deve essere applicata a cura di quest’ultimo nello Stato di origine (art. 45 della Direttiva) (...). Facendo, così, ‘rivivere’ il recupero IVA dell’Autorità fiscale austriaca contro il quale, però, il fornitore potrebbe eccepire di aver fatto affidamento sul numero d’identificazione IVA del committente tedesco e, al contempo, di aver adottato le misure che gli ‘si potevano ragionevolmente richiedere per garantire che l’operazione realizzata non [...] conducesse [il medesimo fornitore] a partecipare a un’evasione tributaria’ (Mecsek-Gabona, C-273/11)”. Va da sé che la ripresa dell’IVA azionata dal Fisco austriaco sarebbe più facile da sostenere se il missing trader avesse rivenduto le quote di emissioni di gas ad un soggetto non tedesco, ma austriaco. Considerando che, in tal caso, per effetto del venir meno della soggettività passiva del missing trader, l’operazione potrebbe essere riqualificata come un servizio nazionale effettuato fra due soggetti austriaci.

Diverso trattamento IVA per gli operatori in buona e mala fede Proseguendo nell’esame del significato attribuito dalla giurisprudenza europea all’art. 273 della Direttiva, è utile l’analisi della sentenza del 24 novembre 2022 relativa alla causa C-596/21. La Corte, in tale arresto, si è sentita in dovere di specificare che le misure sanzionatorie previste dal citato art. 273 si distinguono dalla sanzione del diniego di detrazione, che viene opposto dal Fisco all’autore della frode oppure a colui che, essendone a conoscenza, l’ha agevolata. Per comprendere il senso di questa precisazione, occorre contestualizzarla all’interno della fattispecie concreta nella quale tutti i soggetti coinvolti hanno agito in malafede. Dietro l’apparente e “atipica” commissione alla vendita del veicolo usato14, si nasconde l’evasione IVA realizzata dal commissionario con la partecipazione passiva degli altri due soggetti15. Tanto che la Corte, nell’esauriente premessa in fatto, rimarca che (punto 14) il “giudice del rinvio considera che, tenuto conto del fatto che si sono verificati diversi eventi che esso qualifica come ‘anomali’, A avrebbe dovuto verificare l’identità della sua controparte contrattuale. Tale verifica gli avrebbe consentito di constatare, da un lato, che C aveva deliberatamente dissimulato la propria identità, il che non poteva avere altro scopo se non quello di evadere l’IVA dovuta a titolo della vendita dell’autoveicolo controverso, e, dall’altro, che W non intendeva adempiere i propri obblighi fiscali”. Ciò nonostante, il giudice tedesco chiede se il secondo acquirente possa beneficiare del diritto alla detrazione per il semplice fatto che, prima di lui, altri soggetti della catena fossero a conoscenza dell’evasione IVA. Inoltre, visto che l’IVA a debito di una delle due fatture false è stata pagata, si chiede alla Corte se l’indetraibilità dell’imposta per il secondo acquirente sia integrale o limitata, “quanto all’importo, al mancato introito tributario conseguente all’evasione”16 risultante, per esempio, dal differenziale fra l’IVA dovuta “nella catena di operazioni” e quella accertata oppure effettivamente pagata dagli autori e partecipanti alla frode. La risposta al primo quesito, del tutto ovvia, è già stata ripetutamente enunciata dai giudici europei nei loro precedenti e, infatti, nel richiamarli la Corte ricorda che per negare la detrazione è sufficiente che l’ente impositore dimostri che l’operatore “sapeva o avrebbe dovuto sapere” che, con il suo acquisto, “partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione all’IVA, o perlomeno la agevolava”. E “ciò indipendentemente dalla circostanza” che il medesimo soggetto passivo possa “trarre o meno beneficio” dalla sua operazione17. Meno ovvia, e più importante teoricamente e fors’anche praticamente, è la risposta al secondo quesito che fornisce una soluzione ad un problema assai delicato. Ammettere, come sembra ipotizzare il giudice nazionale, una detrazione parziale, ancorché l’operatore sia consapevole della frode, significherebbe indurre i soggetti passivi all’adozione di controlli preventivi idonei per “limitare le conseguenze di un’eventuale evasione” e non, invece, per evitare che “le operazioni da essi effettuate non li conducano a partecipare a un’evasione fiscale o ad agevolarla”18. Per scongiurare questo pericolo, che segnerebbe un arretramento nella lotta alla frode, la Corte ha riaffermato con fermezza che, nel caso di specie, (punto 42) “deve essere negato integralmente il diritto alla detrazione dell’IVA (...), se [il secondo acquirente] sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’acquisto in parola era collegato a un’evasione”. L’affermazione, se letta in relazione al caso di specie, sembra esclusivamente indirizzata agli operatori disonesti, cioè a coloro che - come nei fatti di causa - agiscono in malafede e, per tale ragione, sono privati della detrazione in quanto la buona fede19 “costituisce un presupposto sostanziale implicito del diritto a detrazione” (punto 38). Ne consegue, accettando l’idea della Corte, che per gli operatori onesti, ossia quelli che non agiscono in malafede, nei confronti dei quali il Fisco potrebbe tuttavia contestare la mancata adozione di una “certa diligenza” nella scelta della controparte contrattuale, gli Stati dell’Unione dovrebbero introdurre - al fine di eliminare la sanzione dell’indetraibilità dell’imposta che, oltre a non aver alcun aggancio normativo, resta indecifrabile circa i suoi presupposti applicativi - delle specifiche misure sanzionatorie in virtù dei poteri riconosciuti dall’art. 273 della Direttiva in coerenza, fra l’altro, con il principio della certezza del diritto.

Ripartizione dell’onere probatorio

La sentenza Aquila Part del 1° dicembre 2022, causa C-512/21, delinea una sorta di vademecum dei principi espressi dai giudici europei in materia di frode utilissimo, sul piano pratico, per i tre protagonisti del processo tributario, vale a dire, il giudice, l’ente impositore e il difensore tributario. L’utilità è comprensibile osservando che, in relazione alle problematiche connesse alla regola finale dell’onere della prova del fatto incerto, la norma nazionale dell’Ungheria, dove si svolgono i fatti della causa Aquila Part, è molto simile, per non dire identica, a quella italiana. In entrambi i sistemi processuali, il legislatore pone a carico del Fisco l’onere di dimostrare la fondatezza della pretesa azionata, salvo i casi delle presunzioni legali che ribaltano tale onere sul contribuente. Com’è noto, il novellato art. 7, comma 5-bis del D.Lgs. n. 546/1992, che ha avuto un impatto deflagrante nel nostro ordinamento, con una elementare e lapidaria enunciazione prevede che “l’Amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”. Specificando, altresì, che “il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”. Analogamente, secondo il codice tributario ungherese, “durante il controllo, l’Amministrazione tributaria ha l’obbligo di accertare e dimostrare i fatti, tranne nel caso in cui, in forza di una legge, l’onere della prova incomba al contribuente” (punto 10). Nel caso di specie - quasi una ipotesi di scuola - il Fisco contesta alla società rumena Aquila Part, identificata ai fini IVA in Ungheria, di aver partecipato ad una frode carosello e, pertanto, le nega il rimborso dell’imposta assolta in Ungheria. Per giustificare il diniego i verificatori, da un lato, descrivono lo schema fraudolento che viola le norme nazionali sulla sicurezza della catena alimentare a dimostrazione del “dirottamento dei prodotti (...) dalla Slovacchia verso l’Ungheria”20, dall’altro lato, indicano gli elementi dai quali ipotizzano la partecipazione della società alle operazioni illecite. Con specifico riferimento agli “elementi che dimostrerebbero che il soggetto passivo non aveva dato prova di sufficiente diligenza” nella scelta dei partner commerciali, l’ente impositore menziona “il fatto che il gestore della società con cui il soggetto passivo aveva concluso un contratto di mandato aveva già partecipato in precedenza ad una frode in materia di IVA” (punto 19). La società si è difesa replicando che l’accertamento fiscale (punto 20) “è stato condotto con un’idea preconcetta e deduce, in sostanza, l’assenza di elementi di prova che dimostrino che essa poteva essere a conoscenza dell’esistenza di una frode commessa a monte”. In più, la contribuente sostiene di aver provato la sua buona fede, “avendo stabilito norme interne in materia di acquisti che impongono che i fornitori siano sottoposti a verifiche prima della conclusione di un contratto e che vietano qualsiasi pagamento in contanti”. Evidenziando, infine, che il Fisco aveva “ignorato” il contenuto del contratto di mandato. In questo contesto normativo e fattuale, sintetizzato nei suoi aspetti essenziali, il giudice nazionale ha formulato sei quesiti che toccano tutte le principali criticità riguardanti le frodi. E la Corte di Giustizia, per ciascuna domanda pregiudiziale, non ha esitato a fornire le risposte - senz’altro equilibrate e condivisibili - che hanno una straordinaria vocazione didattica. Anzitutto, merita particolare attenzione la sottolineatura dei giudici europei sulla natura di sanzione dell’indetraibilità dell’IVA, che viene applicata nonostante l’esistenza delle condizioni sostanziali del diritto alla detrazione (punto 29). L’indefettibile presupposto di questa sanzione è l’elemento soggettivo declinato sotto forma di partecipazione attiva o passiva alla frode, “posto che l’istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario” (punto 29). Nel primo caso (partecipazione attiva), l’operatore commette l’evasione, nell’altra ipotesi (partecipazione passiva) il soggetto diventa un collaboratore o un complice dei frodatori perché “sapeva” dell’evasione ovvero, pur non essendone a conoscenza, l’ha agevolata tramite una condotta non diligente che gli ha impedito di rendersi conto (“avrebbe dovuto sapere”) della sua partecipazione nella frode. Con il corollario di decisiva importanza per cui, sul piano processuale, l’onere della prova “incombe alle Autorità tributarie”, mentre ai giudici nazionali è affidato il compito di accertare se il Fisco abbia assolto a tale onere regolato, nel silenzio della Direttiva, dalle “norme in materia di prova previste dal diritto nazionale” che “non devono pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione” (punti 30 e 31). Per tale ragione, la Corte “vieta, indipendentemente dal tipo di evasione o dai comportamenti esaminati, il ricorso [da parte dell’Autorità tributaria] a supposizioni o a presunzioni21 che abbiano l’effetto, confutando l’onere della prova, di violare il principio fondamentale del sistema comune dell’IVA costituito dal diritto a detrazione e, pertanto, l’efficacia del diritto dell’Unione” (punto 34). Fondamentale è, poi, il passaggio motivazionale sull’individuazione dei parametri di valutazione per stabilire quando la condotta dell’operatore sia diligente e, quindi, lo stesso possa essere considerato estraneo all’evasione commessa da altri soggetti. Il quadro disegnato dai giudici europei è chiarissimo nel fissare il principio per cui, in assenza di “indizi di una frode” risultanti dal normale scambio di documentazione fra gli operatori, non “ci si può attendere una maggiore diligenza dal soggetto passivo” e, dunque, “non si può esigere da quest’ultimo [operatore] che esso proceda a verifiche complesse e approfondite, come quelle che l’Amministrazione finanziaria ha i mezzi per effettuare”. Insomma, precisa la Corte, “l’Autorità tributaria non può imporre a un soggetto passivo di compiere controlli complessi e approfonditi relativi al suo fornitore, trasferendo di fatto su di esso gli atti di controllo incombenti a tale Autorità” (punti 50 e 52). Muovendo da queste premesse teoriche, la Corte ha fornito i chiarimenti richiesti dal giudice nazionale osservando, fra l’altro, che è incompatibile con la Direttiva la sanzione dell’indetraibilità dell’imposta laddove l’ente impositore “si limiti a stabilire che tale operazione fa parte di una catena di fatturazione circolare” e, inoltre, “la mera circostanza che i membri della catena di cessioni (...) si conoscessero non costituisce un elemento sufficiente per dimostrare la partecipazione del soggetto passivo alla frode” (punti 37 e 45).

Considerazioni conclusive

Le indicazioni della Corte di Giustizia sopra analizzate risultano talmente incisive e stringenti da travolgere qualsiasi futuro intervento della giurisprudenza nazionale che, sulla base della sola ricostruzione della frode fornita dall’ente impositore, intenda ribaltare sul contribuente la prova della sua buona fede rispolverando, tra l’altro, quella tesi - ormai superata - secondo cui l’operatore deve essere onerato di un “maggiore” grado di diligenza: tesi che, invece, come stabilito dai giudici europei, è ammessa in via eccezionale soltanto qualora emergano nei normali rapporti di prassi commerciale degli indizi anomali circa l’esistenza dell’evasione. Del resto, come rimarcato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Aquila Part, “non si può tuttavia pretendere che” il soggetto passivo “proceda a verifiche complesse e approfondite come quelle che possono essere effettuate dall’Amministrazione finanziaria” (punto 52). Infine, è doveroso non sottacere alcune potenziali problematiche che potrebbero sorgere dalla cooperazione fra le Autorità fiscali degli Stati dell’Unione, che la Direttiva 2014/23/UE si prefigge di migliorare nell’ottica di garantire l’efficacia delle procedure di recupero delle imposte. Come si è visto, nel caso della sentenza in commento, il Fisco tedesco potrebbe agire nei confronti del fornitore austriaco con il possibile avvio di un contenzioso tributario in Austria avente ad oggetto non solo l’IVA tedesca, ma anche le sanzioni irrogate nella misura stabilita dal legislatore della Germania. Con il rischio che il giudice austriaco, oltre a dover condannare un proprio cittadino per una evasione commessa in un altro Stato da soggetti terzi, si troverebbe a dover applicare delle norme nazionali di un altro Paese che, in alcuni casi, potrebbero essere incompatibili con il diritto dell’Unione in quanto determinate violando il principio di proporzionalità. Si pensi, per esempio, alla normativa italiana che consente all’Agenzia delle entrate di irrogare delle sanzioni pari al “centoottanta per cento dell’imposta” e, inoltre, all’Agenzia delle dogane di applicare la sanzione nella misura di “dieci volte l’importo dei diritti”.

Fonte: Corriere Tributario, n. 1, 1 gennaio 2023, p. 74

Avv. Clino De Ieso, Avvocato Tributarista cassazionista, Partner Studio Legale Tributario Centore

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