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Oneri pluriennali e accertamento dei ratei annuali: le Sezioni Unite superano gli equivoci causati dalle sentenze del 2018 e del 2019, ma ne creano di nuovi

Prof. Giuseppe Ingrao

Giurisprudenza Corte di Cassazione​

Massima sentenza:

Decadenza poteri di accertamento – componenti ad efficacia pluriennale – definitività della dichiarazione di prima iscrizione della spesa pluriennale – irrilevanza – rettificabilità della dichiarazione di periodo ove è imputato il rateo annuale entro i termini ordinari di decadenza - ammissibilità

Nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, ex art. 43 d.P.R. n. 600/1973, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente reddituale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio

Commento dell'autore

**Oneri pluriennali e accertamento dei ratei annuali: le Sezioni Unite superano gli equivoci causati dalle sentenze del 2018 e del 2019, ma ne creano di nuovi **

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 10701/2020. - 3. Le precedenti sentenze della Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019, tra termini di decadenza, buona fede ed elusione fiscale. - 4. Le argomentazioni prospettate dalle Sezioni Unite n. 8500/2021. - 5. Le esigenze aziendali di conservazione dei documenti amministrativi e contabili relativi a beni durevoli ed a componenti reddituali pluriennali per un ampio lasso temporale che va oltre il termine decennale. - 6. Erroneità del riferimento alle perdite d’impresa riportabili in avanti, quale elemento reddituale pluriennale su cui impatta il principio di diritto delle Sezioni Unite. - 7. Conclusioni: oneri pluriennali, certezza del rapporto tributario e diritto di interpello.

Le Sezioni Unite intervengono sul problema della rettifica dei ratei annuali relativi ad oneri pluriennali qualora sia ormai definitiva la dichiarazione relativa all’annualità di prima iscrizione in bilancio. La pronuncia, in modo del tutto prevedibile, sconfessa la tesi restrittiva sostenuta da Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019, legittimando la piena rettificabilità delle dichiarazioni di periodo, per ragioni attinenti sia al calcolo matematico di ripartizione dell’onere, sia all’esistenza ab origine dei presupposti di deducibilità. Il principio di diritto formulato è condivisibile, ma non può essere esteso anche alla fattispecie delle perdite di impresa riportabili in avanti senza limiti temporali. Quanto alla conseguente necessità di conservazione ultradecennale dei documenti contabili probatori (aspetto su cui le sentenze del 2018 e 2019 non prendono posizione), le Sezioni Unite avrebbero potuto puntualizzare le differenze tra il caso dell’elemento patrimoniale dell’attivo o del passivo che si trasforma in modo graduato in elemento reddituale degli esercizi successivi e l’ipotesi dell’elemento reddituale che si esaurisce puntualmente all’interno di un esercizio, al fine di sfumare la asserita inesigibilità della condotta.

1. Premessa Nel precedente numero 2/2021 della Rivista è stata portata all’attenzione dei lettori la questione del regime dei termini di decadenza dell’attività di accertamento tributario in presenza di fatti economici a rilevanza pluriennale, avendo a riferimento l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite 5 giugno 2020, n. 10701. Atteso che, successivamente alla pubblicazione del predetto contributo, è stata depositata la corposa sentenza a Sezioni Unite della Cassazione 25 marzo 2021, n. 8500, ci sembra opportuno riprendere il tema, per offrire alcuni spunti di riflessione che si aggiungono a quelli - pienamente condivisibili - già prospettati da autorevole dottrina. Il punto controverso è in che misura la decadenza dell’azione impositiva prevista dall’art. 43, Dpr n. 600/73, incida sui fatti economici a carattere pluriennale che si ripercuotono negli anni successivi tramite la deduzione di quote di ammortamento o di ratei annuali sulla determinazione del reddito e/o dell’imposta periodicamente dovuta dai contribuenti. Si è, invero, affermata una possibile preclusione della rettifica delle quote annuali, qualora siano inutilmente decorsi i termini per l’esercizio del potere di accertamento relativamente all’annualità in cui è stata rilevata in bilancio la spesa da dedurre in modo frazionato nei periodi di imposta successivi.
Il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite è il seguente: “Nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, ex art. 43 d.P.R. n. 600/1973, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente reddituale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio”. Tale conclusione viene supportata da una moltitudine di argomentazioni giuridiche, tra cui un ruolo centrale assume l’affermazione (contenuta nel par. 4.5) secondo cui “la definitività, in conseguenza del mancato accertamento, della dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale non porta in sé il diverso effetto della ‘preclusività’ di sindacato per un periodo di imposta successivo; anzi, per meglio dire, non produce proprio alcun effetto di accertamento, il quale può derivare solo dalla positiva rispondenza alla realtà di quanto dichiarato”. In sostanza, secondo la Corte, non vi sono limiti alla possibilità di rettifica della dichiarazione di periodo con riferimento alle quote di ammortamento o ai ratei degli oneri pluriennali, potendo così il Fisco escludere dalla determinazione del reddito imponibile tali componenti negativi per qualunque ragione, cioè sia per errori del calcolo matematico con cui si distribuisce in più esercizi la spesa pluriennale, sia per questioni legate alla sussistenza ab origine dei presupposti di deducibilità. Orbene, l’approdo cui sono giunte le Sezioni Unite era per varie ragioni del tutto prevedibile. Innanzitutto perché l’ordinanza di rimessione ha prospettato una decisa critica della tesi restrittiva abbracciata nei due precedenti della Cassazione del 2018 e del 2019. Le massime ivi contenute, in effetti, non possono assumere una portata generale, in quanto nei casi vagliati dai giudici di legittimità si discuteva soprattutto della rilevanza della buona fede del contribuente e della sussistenza o meno di una elusione fiscale. Piuttosto che centrare la motivazione su questi temi, si è preferito risolvere la controversia seguendo un percorso “più rapido”, qual è l’affermazione del principio della decadenza dell’azione impositiva in presenza di oneri pluriennali non contestati ab origine. Secondariamente perché attenta dottrina ha messo puntualmente in luce la debolezza delle argomentazioni proposte dalla Cassazione per limitare la rettifica delle quote di oneri pluriennali una volta trascorsi i termini per verificare la dichiarazione del periodo di imposta nel quale è stata imputata per la prima volta la spesa. Rileva, ancora, la circostanza che, proprio con riguardo al tema dell’incidenza del fattore temporale sul potere di accertamento, i giudici di legittimità hanno già prospettato soluzioni interpretative “pro Fisco”, come nel caso della asserita possibilità di contestare i crediti esposti in dichiarazione oltre il termine di decadenza in sede di impugnazione del diniego di rimborso (Cass. n. 27306/2016), evidenziando l’esistenza di un maggiore reddito imponibile e di una maggiore imposta lorda, aspetto che rappresenta non un’eccezione in senso tecnico, ma una mera contestazione del fatto costitutivo del diritto al rimborso dedotto dal contribuente. Si è precisato peraltro che i termini decadenziali operano solo con riguardo al riscontro dei debiti del contribuente ma non dei suoi crediti (Cass. SS.UU. n. 50/69/2016; Cass. n. 25464/2018; Cass. n. 3096/2019). Da ultimo possono richiamarsi quelle affermazioni della Cassazione che hanno aperto la strada alla possibilità di superare le preclusioni scaturenti dall’avvenuto decorso dei termini di prescrizione o di decadenza previsti dalla normativa interna, al fine di procedere con il recupero degli aiuti di Stato; nonché l’orientamento della Corte costituzionale che, con specifico riguardo ai termini di decadenza dell’attività di accertamento, ritiene praticabili proroghe eccezionali o il raddoppio del termine ordinario.

2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 10701/2020 In termini provocatori, possiamo da subito evidenziare che il problema interpretativo su cui si è chiesto l’intervento delle Sezioni Unite non esisteva. D’altra parte, ove ci fossero state forti criticità in merito all’applicazione dell’art. 43, Dpr n. 600/1973, in presenza di oneri pluriennali, queste sarebbero emerse già da qualche decennio vista la amplissima rilevanza concreta della questione. Invero, prima delle sentenze della Cassazione del 2018 e 2019, il dibattito sulla possibilità per l’Ufficio di sindacare qualsiasi profilo attinente alla deducibilità delle quote di ammortamento o dei ratei annuali dei componenti reddituali a rilevanza pluriennale, anche se erano ormai decorsi i termini per accertare l’annualità nella quale le spese pluriennali erano state per la prima volta rilevate in bilancio e in dichiarazione, vi erano solo alcune pronunce contrastanti della giurisprudenza di merito. Il problema interpretativo è stato, quindi, creato proprio da questi due precedenti della Cassazione. Le sentenze della Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019 hanno affermato che una interpretazione costituzionalmente orientata (art. 24 Cost.) delle norme sulla decadenza del potere impositivo esige che si tenga conto della pronuncia della Corte costituzionale n. 280/2005, secondo cui il contribuente non può essere esposto all’azione del Fisco per termini eccessivamente dilatati; pertanto, aderendo alla soluzione della possibilità di contestare un costo pluriennale o una quota di ammortamento oltre il termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo di imposta di concreto sostenimento della spesa si arriverebbe a violare il dictum della citata sentenza della Corte costituzionale, atteso che i presupposti per il diritto della deduzione nel suo complessivo valore (e non della singola quota) si realizzano appunto nel momento di acquisizione del bene o di sostenimento della spesa ad utilizzo pluriennale. Peraltro, si è rilevato che il principio di autonomia dell’obbligazione tributaria per singolo periodo di imposta non consente nuove ed autonome valutazioni tutte le volte in cui il presupposto per la deduzione di una spesa si rinnova annualmente in termini identici rispetto al passato, come dimostra quell’orientamento della giurisprudenza secondo cui è ammessa l’efficacia espansiva del giudicato su annualità diverse da quelle oggetto della decisione definitiva in relazione a situazioni geneticamente unitarie, destinate a ripercuotersi su annualità successive.

Ciò posto, intendiamo spendere delle considerazioni non propriamente giuridiche le quali, in aggiunta all’esistenza delle “incriminate” pronunce di Cassazione, possono avere indotto la Cassazione ad assumere un approccio di estrema cautela sfociato nell’ordinanza di rimessione del 5 giugno 2020, n. 10701. Occorre innanzitutto considerare che la notevole entità della rettifica operata dall’Ufficio ha stimolato i giudici di legittimità a scegliere un atteggiamento molto prudenziale. La rettifica operata dall’Ufficio impositore riguardava, infatti, una quota annuale della svalutazione di quasi 3.000.000 di euro di un credito concesso dalla stabile organizzazione italiana di una società non residente - la Rabobank Nederland - alla Parmalat Spa, di cui si asseriva l’indeducibilità per mancanza del requisito della correlazione tra costi e ricavi, in quanto il credito era stato erogato non con il fondo di dotazione della branch italiana, ma con risorse provenienti dalla casa madre estera alla quale la stabile organizzazione italiana aveva trasferito parte degli utili dell’operazione sotto forma di interessi passivi. La svalutazione è stata effettuata in un periodo di imposta non più accertabile (il 2003), ma, essendo tale componente negativo deducibile in nove esercizi, le quote annuali hanno inciso anche sulla determinazione del reddito degli anni successivi, tra cui il 2004, per il quale appunto è stato emesso l’avviso di accertamento ai fini Ires ed Irap. Ove la contestazione avesse avuto una minore incidenza sul quantum di imposta preteso dall’Ufficio fiscale, probabilmente il supremo collegio avrebbe risolto la questione (nel senso favorevole al Fisco) senza sollecitare l’intervento delle Sezioni Unite. L’annullamento con rinvio ad altra sezione della Commissione regionale da parte delle SS.UU. ha rallentato notevolmente la procedura di riscossione dei tributi rispetto ad un eventuale annullamento senza rinvio fatto in illo tempore dalla sezione tributaria della Cassazione. Secondariamente va sottolineato che il giudizio di primo grado presso la Commissione tributaria di Milano si era concluso con una sentenza favorevole al contribuente e che tale decisione è stata confermata dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia. La motivazione prospettata dai giudici di merito a sostegno dell’illegittimità dell’operato dell’Ufficio risiedeva nel fatto che l’omessa contestazione della svalutazione per il periodo di imposta 2003 e lo spirare del termine di decadenza della rettifica da parte dell’Ufficio per tale annualità consentiva di muovere contestazioni esclusivamente attinenti al profilo della esatta quantificazione del nono imputabile all’esercizio, ma non connesse alla radicale indeducibilità del componente reddituale stimato. La doppia vittoria presso i giudici di merito ha contributo ad accendere un campanello di allarme sulla vicenda. Da ultimo, anche la portata generale della questione ha inciso sulla scelta di rimettere il caso alle Sezioni Unite. Essa, infatti, si pone in modo analogo in relazione alla moltitudine di componenti reddituali che originano da fattispecie ad efficacia pluriennale, quali tra le altre gli ammortamenti di beni materiali ed immateriali, le spese relative a più esercizi, nonché con riguardo ad ipotesi di detrazioni e crediti di imposta che vengono riconosciuti al contribuente in modo frazionato, coinvolgendo più annualità. Orbene, in questa cornice, la Cassazione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, al fine di offrire un indirizzo certo, che potesse evitare di alimentare prevedibili futuri contenziosi. L’ordinanza di rimessione sottopone ad una puntuale critica gli argomenti giuridici evocati dalle due citate sentenze per negare la possibilità di sindacare i ratei dell’onere pluriennale quali: a) il principio di autonomia dell’obbligazione tributaria, che ad avviso dei giudici opera solo sul piano sostanziale e non procedurale e come tale risulta inidoneo a risolvere la questione controversa; b) la regola dell’efficacia espansiva del giudicato esterno su fatti aventi efficacia permanente o pluriennale, ritenuta anch’essa estranea alla questione controversa perché l’inoppugnabilità di un componente reddituale conseguente a vaglio giudiziale consolidatosi nel giudicato è cosa diversa dall’inoppugnabilità della dichiarazione per effetto di mancato accertamento; c) il riferimento alla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 280/2005 in tema di apposizione di una termine di notifica alla cartella di pagamento, che - chiariscono i giudici - non è riferibile all’istituto della decadenza in generale, ma esclusivamente alla riscossione dei tributi. Su un piano più generale, l’ordinanza precisa che l’amministrazione finanziaria ha il potere di contestare i bilanci di esercizio successivi rispetto a quello di prima imputazione della spesa, non manifestandosi alcun aspetto di consolidamento e che la tesi che consente di sindacare pienamente la deducibilità della quota di ammortamento o del rateo della spesa pluriennale non confligge con la tutela del contribuente al quale la legge consente di disfarsi della documentazione contabile relativa alla dichiarazione una volta decorsi i termini dell’accertamento e comunque decorsi dieci anni dalla formazione della stessa, perché “il regime dell’art. 22 andrebbe ricollegato a ciascuno dei successivi periodi di imposta nei quali il componente reddituale assuma rilievo, sicché per ognuno di tali periodi dovrebbe decorrere un nuovo termine dell’obbligo di conservazione documentale fino allo spirare del termine di decadenza dell’ultima dichiarazione rilevante”.

3. Le precedenti sentenze della Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019, tra termini di decadenza, buona fede ed elusione fiscale

Se ci si limita alla lettura delle massime delle citate sentenze del 2018 e del 2019 può in effetti immaginarsi che esista un orientamento della giurisprudenza di legittimità ben delineato, che intende restringere la previsione di cui all’art. 43, Dpr n. 600/73, ponendo dei paletti alla rettifica della dichiarazione tributaria ove siano indicati ratei di spese pluriennali e qualora siano decorsi i termini di accertamento della dichiarazione di prima imputazione della spesa che si ripercuote in più esercizi. Scorrendo con attenzione i provvedimenti in questione ci si accorge, invece, che nel caso di Cass. n. 9993/2018 il tema centrale oggetto di valutazione, anche se affrontato dai giudici applicando la regola dell’obiettiva incertezza della norma, consisteva nella possibilità per il contribuente di invocare una situazione di buona fede nella misura in cui il Fisco aveva contestato la deduzione di una quota di ammortamento (relativa a un diritto di concessione d’uso di un impianto idrico) nel periodo di imposta 2007 quando l’iscrizione in bilancio del bene immateriale e la deduzione della prima quota annuale era avvenuta nella dichiarazione relativa all’esercizio chiuso al 31 dicembre 1998. La rettifica dell’Ufficio non era motivata con riferimento ad errori nel calcolo della quota di ammortamento annuale, bensì si sosteneva l’impossibilità di iscrivere in bilancio il diritto di concessione ed in conseguenza di dedurre fiscalmente quote di ammortamento. L’argomento della buona fede, al di là dell’effettivo espletamento di una attività di verifica negli anni precedenti (di cui non vi è traccia nella sentenza), è stato probabilmente evocato per il fatto che la rettifica del piano di ammortamento è intervenuta dopo circa un decennio dalla iscrizione del bene immateriale in bilancio. Trattandosi di una società che gestiva la rete idrica di un Comune, come tale ben visibile al Fisco, e non di una delle numerose imprese che svolgono una qualsiasi attività commerciale in un determinato territorio (le cui problematiche di determinazione del reddito, in mancanza di una puntuale verifica fiscale, sono di norma del tutto “sconosciute” agli Uffici impositori), era in qualche misura ipotizzabile che vi fosse una sorta di avallo implicito sul comportamento del contribuente (naturalmente su questo specifico problema) scaturente dalla mancata rettifica in un arco temporale così importante qual è un decennio. È sostenibile, infatti, che gli Uffici impositori in sede di selezione dei soggetti da sottoporre a controllo avessero sommariamente esaminato “a tavolino” la dichiarazione tributaria di tale società senza rilevare particolari anomalie in merito all’ammortamento del diritto di concessione d’uso degli impianti.
Non a caso la sentenza della CTR aveva accolto le richieste del contribuente nei limiti della non applicazione delle sanzioni (sia pur evocando l’obiettiva incertezza della norma) e l’Ufficio aveva fatto ricorso in Cassazione censurando la sentenza in tale parte. Nel ricorso incidentale del contribuente si è, invece, evidenziata la violazione dell’art. 43 del Dpr n. 600/73. Ed allora, piuttosto che “cimentarsi” nel problema indubbiamente scivoloso della individuazione del momento in cui può considerarsi integrata una situazione di buona fede del contribuente, i giudici di legittimità hanno salvaguardato la situazione del contribuente, percorrendo la strada più agevole della violazione dell’art. 43 citato nella misura in cui non emergeva un’ipotesi di errato calcolo della quota di ammortamento, essendo stata contestata in radice la possibilità di iscrivere il diritto di concessione nell’attivo del bilancio. Nel caso di Cass. n. 2899/2019 si discuteva, invece, se una operazione di fusione, che ha consentito l’iscrizione in bilancio di un avviamento per emersione di un disavanzo, fosse da giudicarsi elusiva con conseguente indeducibilità delle quote di ammortamento dell’avviamento per gli anni 2003 e 2004. La Commissione tributaria provinciale di Lecco e la Commissione tributaria regionale della Lombardia escludevano la ricorrenza di intenti elusivi nell’agire della società e rilevavano comunque la tardività della contestazione perché le operazioni societarie di fusione erano state effettuate in periodi di imposta non più accertabili (2000 e 2001); quindi al Fisco era in ogni caso preclusa la possibilità di contestare la deducibilità pro quota dell’avviamento negli anni successivi. La Cassazione ha confermato la tesi della violazione dell’art. 43 Dpr n. 600/1973, richiamando il precedente del 2018, ma posto che si era di fronte ad operazioni ritenute non elusive dai giudici di merito, non vi è dubbio che la forza condizionante del principio di diritto secondo cui non è possibile contestare i ratei delle spese pluriennali risulta nettamente ridimensionata. Sarebbe stato, quindi, meno dannoso, nella prospettiva della certezza delle regole fiscali, motivare la sentenza concentrando l’attenzione sulla non elusività dell’operazione.
In definitiva, a prescindere dal fatto non esistevano pronunce di legittimità che specificamente ritenevano insussistente l’ordinario potere di accertamento riguardo ai ratei delle spese pluriennali o agli ammortamenti, la Cassazione avrebbe potuto risolvere da subito la vicenda in senso favorevole al Fisco senza rimettere la questione interpretativa alle Sezioni Unite.

4. Le argomentazioni prospettate dalle Sezioni Unite n. 8500/2021

La sentenza a Sezioni Unite, nell’approcciarsi al problema interpretativo, ha ribadito la grande rilevanza della questione, segnalando che, oltre il problema della svalutazione dei crediti, investe questioni eterogenee quali le quote di ammortamento dei beni strumentali materiali e immateriali, la rateizzazione delle plusvalenze, i crediti di imposta di cui il contribuente può beneficiare in modo frazionato, nonché le perdite d’impresa. La questione - avvertono i giudici – impatta, peraltro, non solo sui soggetti Ires, ma anche sulle persone fisiche, con diluizioni che non sempre sono frutto di una pura ripartizione matematica, ma a volte presuppongono per ogni singola annualità una nuova valutazione che adegui la rata di competenza all’evolversi di situazioni fattuali considerate dalla legge come rilevanti. In ogni caso, i giudici ritengono di poter prospettare una soluzione unitaria. La Corte innanzitutto richiama alcuni precedenti della Cassazione sulla questione controversa, dai quali si può in qualche modo ricavare la possibilità per l’Ufficio di contestare senza limiti i ratei di spesa pluriennale nel periodo di imposta di relativa imputazione. In dette pronunce si precisa che è una mera facoltà, e non un obbligo sancito da preclusione, quella di contestare la componente pluriennale sin dalla sua prima dichiarazione (anche quando dalla contestazione d’origine non possa scaturire alcuna immediata imposizione). L’orientamento in questione muove dall’applicazione del principio di autonomia di ciascuna annualità, ma - rilevano le Sezioni Unite - questo principio viene utilizzato a volte per sostenere la distinta e piena potestà di accertamento su ogni singola annualità, a volte per la definitività e successiva immodificabilità di quanto inizialmente dichiarato. Pertanto, la sentenza n. 8500/2021 chiarisce che la novazione anno per anno dell’obbligazione tributaria incide in primo luogo sulla dichiarazione, nel senso che la mera indicazione di un fatto fiscalmente rilevante per quel periodo d’imposta non può di per sé esplicare alcun effetto preclusivo sulla contestazione di quel medesimo fatto qualora venga dichiarato ex novo in una dichiarazione di altra annualità. Il principio in questione rileva poi sull’accertamento nella misura in cui l’atto impositivo deve essere notificato a pena di decadenza entro i termini di cui all’art. 43, Dpr n. 600/73, che decorrono dalla presentazione della dichiarazione. Da quest’ultimo punto di vista - si sottolinea - la predetta norma non pone espressi limiti, e quindi, atteso che la decadenza è materia di stretta interpretazione, non è praticabile una lettura tale da ingenerare un’ipotesi di decadenza anticipata o ultrattiva a carico del Fisco, perché maturata a causa dello spirare del termine di accertamento relativo non alla dichiarazione oggetto di verifica, ma ad una precedente dichiarazione. Pertanto, l’accertamento si rinnova di anno in anno, anche con riguardo al fatto costitutivo dell’elemento pluriennale dedotto, e non solo guardando alla correttezza della singola quota annuale. La dichiarazione definitiva per mancato accertamento non esplica effetti preclusivi di sindacato per quelle componenti che si riproducono in anni successivi. Dopo questo fondamentale inquadramento del problema, i giudici provvedono ad esaminare le due sentenze del 2018 e del 2019, che - come detto - hanno determinato l’emersione del dubbio interpretativo. Sul punto si nota che l’argomento dell’efficacia esterna del giudicato, che impedisce accertamenti successivi, non è dirimente, in quanto “la preclusione del giudicato tributario ultrannuale attiene al merito dell’imposizione, cioè alla sussistenza o insussistenza sostanziale dei suoi presupposti fattuali o di qualificazione giuridica, non già alla potestà impositiva dell’Ufficio, ostando infatti quel giudicato non all’accertamento in sé, ma ad un suo determinato esito sul fondo della pretesa”. Peraltro, come già rilevato dall’ordinanza di rimessione, si puntualizza che l’intangibilità della dichiarazione per semplice inerzia dell’amministrazione è cosa diversa da una sentenza passata in giudicato. In merito all’argomento rappresentato dal richiamo al principio evocato dalla Corte costituzionale secondo cui il contribuente non può essere esposto all’azione del Fisco per termini eccessivamente dilatati (Corte cost. n. 280/2005), le Sezioni Unite ribadiscono la tesi dell’ordinanza di rimessione secondo cui il principio, peraltro forgiato in un’epoca in cui la fase di riscossione della notifica della cartella di pagamento non era soggetta a termini di decadenza, non può essere utilmente impiegato per l’accertamento. Ed infatti, quando un componente reddituale pluriennale viene riportato in dichiarazione ne vengono al contempo richiamati tutti i fatti presupposti e gli elementi costitutivi, e quindi non si tratta di attribuire all’amministrazione un potere di controllo per un tempo indeterminato così da violare quanto prescritto dal giudice delle leggi.

5. Le esigenze aziendali di conservazione dei documenti amministrativi e contabili relativi a beni durevoli ed a componenti reddituali pluriennali per un ampio lasso temporale che va oltre il termine decennale

Sin qui la ricostruzione delle Sezioni Unite è perfettamente in linea con quanto sostenuto dall’ordinanza di rimessione. Vi è, però, un ulteriore aspetto sul quale la sentenza in rassegna, al pari del provvedimento di rimessione, poteva spendere qualche ulteriore riflessione. Ci riferiamo in particolare alla puntualizzazione delle differenze, nella prospettiva della conservazione dei documenti contabili probatori oltre il periodo decennale, delle ipotesi in cui: a) un elemento viene imputato esclusivamente nello stato patrimoniale del bilancio di un determinato periodo e si trasforma in modo graduato in componente reddituale degli esercizi successivi; b) un elemento viene imputato al conto economico del bilancio e gli effetti reddituali si esauriscono all’interno di quel singolo esercizio. Le Sezioni Unite ribadiscono quanto asserito nell’ordinanza di rimessione secondo cui la circostanza che l’amministrazione contesti il fatto generatore e il presupposto costitutivo dell’elemento anche a molti anni di distanza dal suo insorgere potrebbe determinare la lesione di posizioni giuridiche tutelate in capo al contribuente, quali i profili dell’affidamento (art. 10 della legge n. 212/2000) e dei limiti all’obbligo di conservazione della documentazione probatoria (art. 2220 Cod. civ. e art 8, comma 5, legge n. 212/2000) relativa alle spese pluriennali.
In merito al profilo dell’affidamento, tuttavia, i giudici chiariscono che non può farsi rientrare la mera inerzia dell’amministrazione che sia incorsa in decadenza nell’accertare la dichiarazione nella quale è stato indicato per la prima volta il componente di reddito con valenza pluriennale. Dalla mancata sottoposizione a verifica di una annualità pregressa, il contribuente non può quindi trarre alcun convincimento tutelabile circa la correttezza della propria condotta e la legittimità dell’operato negli anni successivi. Con riguardo al tema della conservazione della documentazione contabile, il supremo collegio richiama la previsione contenuta nell’art. 22, comma 2, del Dpr n. 600/1973, la quale dispone l’obbligo di conservazione delle scritture contabili fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 del codice civile o dalle altre leggi tributarie. Questa normativa - secondo i giudici - depone chiaramente che “è il regime di conservazione documentale, per la sua evidente finalizzazione e strumentalità, a doversi per forza adeguare alla disciplina dell’accertamento ed alla sua tempistica, non il contrario”. L’assenza di una lesione del diritto di difesa per la predetta correlazione servente tra conservazione dei documenti contabili e accertamento degli uffici impositori è stata accertata dalla Corte Costituzionale (sent. n. 247/2011) a proposito della normativa sul raddoppio dei termini per l’accertamento. Le Sezioni Unite, peraltro, valorizzando il principio di reciproca collaborazione espresso dallo Statuto del contribuente, ritengono superabile quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, con riguardo alle ipotesi in cui un bene a fecondità ripetuta partecipa alla formazione del reddito per un periodo temporale superiore al decennio, secondo cui l’ultrattività dell’obbligo di conservazione della contabilità oltre il termine di cui all’art. 2220 cod. civ. opera solo se l’accertamento, iniziato entro il decimo anno, sia stato definito a tale scadenza, altrimenti il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die (Cass. n. 9834/2016). Secondo quest’ultimo orientamento, in sostanza, in caso di ammortamenti ultradecennali, l’amministrazione mantiene il potere di accertamento anche dopo il decennio dall’acquisto del bene, in merito alle residue quote di ammortamento imputate in bilancio e in dichiarazione, ma la prova del contribuente circa i valori imputati originariamente può essere fornite con altre modalità rispetto all’esibizione di documenti di spesa e delle scritture contabili. Per le Sezioni Unite, invece, il contribuente è tenuto alla conservazione delle scritture contabili non sine die, ma fino allo spirare del termine di rettifica della dichiarazione nella quale viene fatto valere l’ultimo rateo annuale della spesa pluriennale, anche se la fattispecie di ammortamento sia ultradecennale. E ciò fermo restando che l’imprenditore, qualora sia legittimamente privato oltre il termine decennale della documentazione contabile, deve essere ammesso a fornire in altro modo la prova a suo carico.
Orbene, come detto, il tema della conservazione della documentazione contabile probatoria poteva essere ulteriormente approfondito, evidenziando la differenza sostanziale che vi è tra i casi in cui l’elemento patrimoniale dell’attivo o del passivo si trasforma in modo graduato in elemento reddituale degli esercizi successivi, dall’ipotesi di elementi reddituali che si esauriscono puntualmente all’interno di un esercizio. Muovendo dalla circostanza che la conservazione dei documenti relativi alle spese pluriennali, ed in generale alle poste che confluiscono nello stato patrimoniale del bilancio, è innanzitutto una esigenza dell’azienda, posto che la determinazione del reddito di esercizio deriva anche dalla considerazione di eventi realizzati in periodi molto risalenti nel tempo, si sarebbe dovuto rimarcare che la questione del mancato rispetto delle norme civilistiche e fiscali in materia e la conseguente limitazione del diritto di difesa è destinato tendenzialmente a sfumare. Nel caso, invece, di spese afferenti esclusivamente ad un esercizio, che affluiscono direttamente nel conto economico di uno specifico anno e giammai si ripresentano in anni successivi, andava notato che non emerge né un esigenza sul piano gestionale, né un obbligo sul piano giuridico, di conservazione oltre i termini decennali civilistici ovvero di quelli previsti per l’accertamento tributario; pertanto, decorsi tali termini né l’azienda, né il Fisco hanno più interesse alla conservazione della documentazione probatoria contabile.
In definitiva, la conservazione della documentazione contabile per un lungo periodo temporale in alcuni casi, come per gli oneri pluriennali, o anche per i componenti positivi di reddito ripartiti in più esercizi (es. rateizzazione quinquennale delle plusvalenze da cessione di azienda o di beni strumentali) è del tutto fisiologica. D’altra parte, nemmeno le sentenze della Cassazione del 2018 e del 2019 avevano affermato che una volta decorsi i termini dell’accertamento relativi alla dichiarazione tributaria corrispondente al periodo di prima iscrizione in bilancio del bene durevole, il contribuente poteva disfarsi della documentazione probatoria contabile relativa al suo acquisto, solo perché le successive quote annuali di ammortamento non possono più essere rettificate dall’Ufficio impositore. Ed invero - dobbiamo sottolineare – che, non conservando le scritture contabili, qualora l’impresa decidesse di vendere il bene, non potrebbe quantificare (e provare) il valore iniziale del bene ai fini del calcolo della plusvalenza o della minusvalenza. In altri termini, finché vi è un costo o un valore da “spendere” per abbattere materia imponibile che potrebbe emergere in futuro, il documento probatorio, a prescindere da quanti anni sono decorsi dalla sua formazione, va conservato fintato che non si esaurisce il potere di accertamento relativo all’annualità in cui l’elemento in questione assume concreta rilevanza. Questa considerazione, che risponde ad una logica di esperienza comune, dovrebbe di per sé indurre a ritenere poco sostenibile l’argomentazione per cui la conservazione della documentazione contabile per un periodo “allargato” rispetto ai termini previsti in linea generale dal codice civile o dalla legislazione tributaria rappresenti sempre e comunque una condotta inesigibile. E ciò fermo restando che in tutte quelle ipotesi in cui emerge una situazione di buona fede in merito alla mancata detenzione delle scritture contabili, il contribuente che subisce la rettifica deve essere ammesso a fornire la prova circa la correttezza fiscale del proprio operato con altri mezzi probatori, come nel caso in cui i beni durevoli provengano da operazioni di conferimento di società o da altre operazioni straordinarie per cui vige il principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti.

6. Erroneità del riferimento alle perdite d’impresa riportabili in avanti, quale elemento reddituale pluriennale su cui impatta il principio delle Sezioni Unite

La puntualizzazione da ultimo effettuata ci consente di intervenire, infine, su un passaggio argomentativo della sentenza che presta il fianco a critiche. Nel paragrafo 4.1 si afferma che la questione esaminata impatterebbe anche sul tema del riporto in avanti delle perdite. Il riferimento alle perdite lascia molto perplessi, in quanto è un tema strutturalmente differente rispetto alla questione della ripartizione delle spese pluriennali. Le perdite rappresentano, infatti, il risultato economico dell’esercizio, frutto di tutte le componenti reddituali positive e negative di periodo, siano esse relative puntualmente alla singola annualità, ovvero rappresentino ratei di componenti di reddito con rilevanza pluriennale. Il risultato economico dell’esercizio (o meglio l’imponibile fiscale determinato secondo e regole del TUIR), utile o perdita, va rettificato entro i termini quinquennali di accertamento, secondo la logica ordinaria del controllo fiscale. Ossia le perdite vanno controllate e rettificate entro il termine di cui all’art. 43, Dpr n. 600/1973 che decorre dalla presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta nel quale si sono formate. Il fatto che le perdite possono essere riportate illimitatamente in avanti, che come è noto è una conseguenza della necessità di superare i problemi di convenzionale suddivisione della vita di impresa in esercizi annuali, adeguando il prelievo fiscale al principio della effettiva forza economica del soggetto, non può determinare uno stravolgimento delle regole sull’accertamento, facendo sì che il controllo possa esplicarsi entro i termini relativi alla dichiarazione nella quale la perdita è utilizzata per compensare gli utili. Per entrare nel merito della “bontà” della perdita, e contestare la sua deducibilità, occorrerebbe, infatti, svolgere una verifica generale su tutte le componenti del reddito d’impresa, che potrebbe avvenire senza alcun limite temporale, in violazione del principio della certezza del rapporto giuridico che intercorre tra Fisco e contribuente. D’altra parte va rilevato che il regime previgente a quello attuale consentiva la possibilità del riporto in avanti entro il limite di cinque periodi di imposta successivi a quello di formazione e la ragione dell’apposizione del limite temporale si ricollegava proprio alla necessità di far coincidere il termine di utilizzo con quello previsto per l’espletamento dell’accertamento tributario con cui il Fisco avrebbe potuto verificare la correttezza del risultato negativo di esercizio riportabile in avanti ed eventualmente rettificarlo. Il sopraggiungere della crisi economica, con conseguente difficoltà di assorbire le perdite in un termine così ristretto, ha indotto il legislatore a rimeditare tale scelta per rendere il sistema di tassazione delle imprese maggiormente coerente con l’art. 53 Cost. Questa modifica, tuttavia, non ha inteso incidere sui termini di rettifica della perdita, i quali restano indifferenti rispetto alle opzioni legislative sulle modalità temporali di riporto.
Ed ancora, affermare che le perdite possono essere contestate nell’anno di utilizzo a prescindere dal periodo in cui si sono formate vuol significare, tra l’altro, che il contribuente sarebbe obbligato a tenere la documentazione contabile relativa a spese ordinarie imputate in un solo periodo di imposta sine die; cioè sino a quando maturino i termini di decadenza del periodo di imposta nel quale tali perdite vengano assorbite dall’utile di esercizio. Come già rilevato, un conto è la conservazione, per un periodo temporale allargato rispetto ai canonici dieci anni, dei documenti contabili comprovanti i valori degli elementi dell’attivo e del passivo patrimoniale, che si trasmettono negli anni successivi; altro aspetto è la conservazione dei documenti relativi alle spese che formano nell’insieme il risultato di esercizio, e che si esauriscono puntualmente in un determinato periodo di imposta: per quest’ultima documentazione non può esigersi la detenzione oltre i termini ordinari previsti per l’accertamento tributario. Le criticità qui esposte assumono carattere ancora più incisivo, in presenza di ipotesi di circolazione delle perdite, come nel caso della fusione o del consolidato, che imporrebbero al soggetto che ne beneficia di conservare per un tempo illimitato la documentazione contabile relativa al soggetto che appunto le ha prodotte. Ed allora, esigenze di ordine sistematico, nonché di salvaguardia del diritto di difesa, impongono di considerare non applicabile il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite alla fattispecie delle perdite riportate in avanti senza limiti temporali. Di conseguenza gli obblighi di conservazione della documentazione probatoria attestante i valori esposti nel bilancio di esercizio e nella dichiarazione dei redditi oltre il termine decennale riguarda esclusivamente le componenti esposte nell’attivo e nel passivo dello stato patrimoniale, che incidono sulla determinazione del reddito nei periodi successivi, ma non le spese di esercizio. Per questi motivi, il riferimento alle perdite d’impresa tra le ipotesi esemplificative su cui impatta la questione interpretativa sottoposta alle Sezioni Unite rappresenta un mero obiter dictum. Sul piano generale, poi, non bisogna trascurare che il principio di diritto viene formulato in relazione al caso deciso e quindi la funzione nomofilattica della Cassazione si arresta all’interpretazione della norma nella misura in cui viene applicata alla vicenda concretamente esaminata e non a tutti i casi su cui teoricamente essa può impattare. Non può, peraltro, pretendersi che la Cassazione, quand’anche si pronunci a Sezioni Unite, esaurisca in modo compiuto e puntuale tutto lo spettro applicativo della norma oggetto di interpretazione. Il principio di diritto impatta, quindi, solo sul tema dell’accertamento delle svalutazioni di crediti e di quelle altre componenti reddituali che presentano sostanziali similitudini. Giammai - si ribadisce - può involgere la rettifica del risultato di esercizio globalmente considerato.

7. Conclusioni: oneri pluriennali, certezza del rapporto tributario e diritto di interpello

In conclusione, muovendo dalla circostanza che gli artt. 38 e 39 del Dpr n. 600/1973 non pongono limiti al contenuto delle rettifiche che gli Uffici possono apportare alla dichiarazione di periodo e che l’art. 43 del medesimo decreto non lascia spazio a interpretazioni restrittive sui termini quinquennali di decadenza di notifica dell’atto impositivo, possiamo affermare che in merito al problema della rettifica dei ratei di oneri pluriennali, sia l’ordinanza di rimessione, sia la sentenza a Sezioni Unite sembrano disperdersi sulla ricostruzione di profili che non rivestono centralità rispetto al cuore del problema che, a nostro avviso, è quello della conservazione della documentazione probatoria contabile che ha dato origine al valore iscritto nel bilancio. Era cioè necessario incentrare la motivazione sul fatto che qualora una spesa per l’acquisto di un bene durevole venga imputata nell’attivo patrimoniale, o qualora un elemento del passivo del bilancio sia in grado di ripercuotersi anche solo potenzialmente negli esercizi successivi, occorre sempre conservare la documentazione probatoria, anche oltre il decennio. Diversamente, per le spese che si esauriscono nell’esercizio, la conservazione è limitata al periodo di decorrenza dei termini per l’accertamento. Invero, la conservazione dei documenti di spesa, prima che essere un obbligo giuridico, è una esigenza dell’azienda, posto che la determinazione del reddito di impresa deriva anche dalla considerazione di eventi realizzati in esercizi molto risalenti nel tempo.
Vi è poi da considerare che l’art. 110, comma 8, TUIR, in caso di constatazione di una deduzione anticipata di una spesa pluriennale (cioè di un errore nel piano di ammortamento), obbliga il Fisco a rettificare in melius anche le dichiarazioni degli esercizi successivi, evitando così che si possa alterare la considerazione unitaria del tributo e garantendo la continuità dei valori di bilancio. Anche da questo punto di vista, quindi, sembra ragionevole la tesi abbracciata dalle Sezioni Unite con specifico riguardo alle spese pluriennali. Mettendo da parte il profilo giuridico della vicenda, non dobbiamo trascurare che l’esigenza di verificare prontamente la sussistenza dei presupposti per la deducibilità dell’onere pluriennale nel periodo di prima iscrizione in bilancio e in dichiarazione dovrebbe ricondursi non tanto al contribuente (che ha necessità di stabilizzare il rapporto fiscale e comunque di difendersi in modo più agevole), ma soprattutto al Fisco, il cui interesse è quello di acquisire il tributo corrispondente all’esatta fattispecie imponibile realizzata. Agire tardivamente vuol significare perdere la possibilità di rettificare i primi ratei della spesa pluriennale. Ma come è noto gli Uffici impositori non hanno la capacità di controllare tutti i soggetti titolari di partita Iva, i quali quasi sempre dichiarano elementi di carattere pluriennale. Va ancora notato che la tesi sostenuta delle sentenze del 2018 e del 2019 non tiene conto del fatto che, a prescindere dalla decadenza, il contribuente potrebbe scegliere di non dedurre la quota della spesa relativa all’anno di prima iscrizione in bilancio (tramite una variazione in aumento in dichiarazione), facendo sì che il Fisco per quell’anno non possa rettificare la dichiarazione, pur ritenendo quella spesa pluriennale indeducibile. Questa condotta, ove si ritenesse che la mancata rettifica della dichiarazione abbia effetti preclusivi per le quote imputate e dedotte negli anni successive, potrebbe consentire al contribuente di beneficiare di deduzioni dal reddito di impresa in mancanza dei presupposti. Sulla base di quanto esposto, a fronte di una “decadenza mobile” correlata alla presenza di oneri pluriennali che si riflettono in un arco temporale estremamente lungo, l’unico strumento che può assicurare la certezza del rapporto Fisco-contribuente è dato dalla proposizione di una istanza di interpello. Si potrà registrare un ingolfamento di questa attività dell’Agenzia delle entrate, ma il silenzio assenso dovrebbe, comunque, consentire il perseguimento delle finalità dell’istituto. Attenzione, però, che anche in caso di parere favorevole al contribuente bisogna conservare “sine die” la documentazione contabile probatoria attinente all’operazione economica che ha fatto emergere la componente reddituale pluriennale, in quanto, come è noto, l’efficacia preclusiva dell’interpello è subordinata al fatto che si sia esattamente realizzata la fattispecie descritta nell’istanza; profilo quest’ultimo che può essere verificato dal Fisco fintanto che non decorrano i termini dell’accertamento, secondo il criterio interpretativo da ultimo fornito dalle Sezioni Unite.

Prof. avv. Giuseppe Ingrao Ordinario Diritto Tributario Università Messina, dottore commercialista

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