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Per un ritorno alla nomofilachia. Presunzioni tributarie e giudizio di Cassazione: un sano intervento di “igiene concettuale” della Suprema Corte.

Prof. avv. Alberto Marcheselli

Giurisprudenza Corte di Cassazione​

1. La questione controversa. 2. Un primo merito della decisione. La esatta ricostruzione della natura della presunzione semplice. 3. Un secondo merito della decisione. La distinzione tra prova e onere della prova. 4. L’origine della grave confusione concettuale corretta dalla Suprema Corte. 5. Le gravi conseguenze di un inquadramento concettuale errato. Prima conseguenza: l’alterazione del diritto di difesa. 6. Un esempio concreto. La difesa contro un accertamento presuntivo. 7. I pericoli delle “motivazioni pigre” sulle prove. 8. Le gravi conseguenze di un inquadramento concettuale errato. Seconda conseguenza: gli effetti teratogeni sul processo. 9. Le gravi conseguenze di un inquadramento concettuale errato. Terza conseguenza: effetti teratogeni di diritto sostanziale. Un case study: le società a ristretta base. 10. Conclusioni.

1. La questione controversa.

L’ordinanza 25474/21 della Suprema Corte è preziosa perché consente di fare il punto su una questione di capitale importanza: i limiti al sindacato sugli accertamenti presuntivi in sede di legittimità e, più in generale, sulle questioni di prova e onere della prova. La fattispecie oggetto della decisione è limpida e la decisione sicura. Nel giudizio di merito si era trattato di valutare delle prove presuntive e la Corte fulmina il motivo di ricorso per aver cercato di introdurre una – inammissibile - questione afferente il fatto (se le prove erano convincenti, cioè se e quanta prova era stata raggiunta) nelle mentite spoglie di una questione di diritto. La decisione appare assolutamente lineare e di particolare importanza, assai più di quanto si possa avvertire a prima vista, perché mette ordine e ripristina chiarezza su alcuni profili che, nel tempo e sempre più spesso, rischiavano di perdersi nella giurisdizione di legittimità.

2. Un primo merito della decisione. La esatta ricostruzione della natura della presunzione semplice.

Il primo profilo di rilevanza della decisione è ribadire che le presunzioni semplici sono né più né meno che mezzi di prova: cioè strumenti di convincimento rimessi al prudente apprezzamento, caso per caso, del giudice. Il fatto che tale strumento sia, nel diritto tributario, talora espressamente menzionato (ad esempio nell’art. 39 d.p.r. 600/1973, che è oggetto del giudizio) non trasforma certo la norma che consente alla amministrazione e al giudice di convincersi attraverso ragionamenti induttivi in norma che prescrive di ritenere sussistenti i fatti presunti (presunzione legale): si tratta di due istituti completamente diversi concettualmente e che non possono certo confondersi. Oltre alla evidente differenza concettuale, sta poi il fatto, strutturale, che per la seconda, una presunzione legale, occorre che la norma precisamente preveda sia il fatto noto sia il fatto presunto, altrimenti non vi è – né vi può essere - alcun precetto presuntivo. Del resto, se ci si consente l’immagine, nessuno desumerebbe da una norma del c.p.p. che prevede l’ammissibilità della testimonianza il precetto, assurdo, che tutte le volte che un testimone indica l’assassino questo si presuma colpevole salvo che dimostri la sua innocenza.

3. Un secondo merito della decisione. La distinzione tra prova e onere della prova.

Le norme sulle prove non vanno quindi confuse con regole di inversione dell’onere della prova. Il secondo profilo di rilevanza della decisione, connesso al primo è, quindi, che l’ordinanza, finalmente, evita di confondere le presunzioni semplici con inversioni dell’onere della prova. Tale errore di prospettiva stava infatti diventando endemico (o pandemico) nella giurisprudenza della Suprema Corte. Le banche dati sono, infatti, piene di sentenze che, a fronte di una prova presuntiva azionata nel provvedimento di accertamento, evocano un preteso onere della prova contraria del contribuente. Tale inquadramento nasce da un errore di prospettiva che è sì comprensibile, ma assolutamente dannoso e, anzi, teratogeno, e non solo per il giudizio di cassazione.

4. L’origine della grave confusione concettuale corretta dalla Suprema Corte.

L’origine di tale inquadramento nasce, in realtà, da un equivoco. Il fondamentale punto di difesa, per il contribuente, a fronte di una presunzione semplice, è, evidentemente, contestarne la attendibilità, sostenere, cioè, che si tratti di un ragionamento non convincente. Si può in proposito anche parlare, in senso lato, di “prova contraria”, ma, ove si utilizzi tale sintagma, deve tenersi ben presente che non si tratta di una attività cui la parte è legalmente onerata, senza la quale, per diretta norma di legge, ella sarebbe soccombente sull’accertamento del singolo fatto, ma nel senso più vago di “argomentazione contraria a quella formulata dall’Ufficio”. La differenza tra la prova contraria alle presunzioni legali e questa attività difensiva può non essere immediatamente evidente. E, infatti, nelle motivazioni degli accertamenti e delle sentenze essa è sistematicamente trascurata. Essa però è fondamentale, in pratica. In effetti, tutte le volte che la presunzione semplice dell’Ufficio sia a tutta prima plausibile, in un certo senso la contraria argomentazione del contribuente può apparire “necessaria”, così come quella della parte onerata da una inversione dell’onere della prova in senso stretto (se essa non “vince” la presunzione legale, perde il ricorso). Da altro punto di vista le due situazioni (presunzioni semplici o legali) potrebbero sembrare simili anche per un motivo inverso. Una necessità di offerta di prova contraria da parte del contribuente, a ben vedere, in termini rigorosamente giuridici, non esiste, in via assoluta, neppure nel caso di presunzione legale: ben potrebbe, a stretto diritto, il giudice ritenere superata la presunzione legale (e, a maggior ragione, quella semplice), sulla base di una opposta presunzione semplice valorizzata d’ufficio dal giudice medesimo. Giunti fin qui si potrebbe dire: presunzioni semplici ragionevoli e presunzioni legali sono equivalenti: di regola o il contribuente offre una prova contraria o perde il ricorso. Eccezionalmente, sia nell’uno come nell’altro caso, la prova contraria potrebbe essere trovata dal giudice in una presunzione semplice che il giudice attiva senza sollecitazioni delle parti (esempio: si presumono certi ricavi sulla base dell’andamento del commercio in un certo settore economico, ma dagli atti il contribuente risulta essere stato malato: il giudice ben potrebbe, anche d’ufficio, dalla malattia, purché essa sia stata allegata agli atti e sia provata o non contestata, desumere un più basso livello di ricavi, sia che essi fossero stati presunti per legge o solo in via di ragionamento). Ma non è così.

5. Le gravi conseguenze di un inquadramento concettuale errato. Prima conseguenza: l’alterazione del diritto di difesa.

L’equivalenza tra le due situazioni, però, è solo apparente e questo è un profilo, pratico, che spesso sfugge e da questo errore derivano, a cascata, conseguenze molto gravi. Innanzitutto, l’illazione contenuta nella presunzione semplice potrebbe aver convinto l’Ufficio ma potrebbe benissimo non convincere il giudice: se si tratta di presunzione semplice ciò può avvenire, anche senza che sia offerta una prova contraria e anche se non sia contestata dal contribuente. Se, invece, si tratta di presunzione legale, l’illazione vincola il giudice, e può essere vinta solo dalla prova contraria. Le chances difensive del contribuente sono completamente diverse e assai più ampie nel caso di presunzioni semplici: esse devono convincere anche il giudice (che deve verificare se il ragionamento che le sostiene sia ragionevole, anche senza prove contrarie) e il contribuente può contestarle (senza averne l’onere, si ribadisce) anche senza fornire prove contrarie (solo contrapponendo argomenti che dimostrino che il ragionamento non regge, in quanto illogico o implausibile, in sé). La difesa del contribuente contro le presunzioni semplici non passa quindi propriamente attraverso una prova contraria, sia nel senso che essa non è un oggetto di un onere, sia nel senso che a volte essa non è neppure una prova, ma solo una argomentazione che contrasta la prova (non è necessario allegare dei fatti, può bastare sostenere che il ragionamento non è plausibile). Il contribuente può, quindi, difendersi da un accertamento fondato su una presunzione semplice facendo, essenzialmente, tre cose (cumulativamente o alternativamente): a) contestare che il ragionamento presuntivo operato sia plausibile in sé; b) contestare che i fattori del contesto conoscitivo assunti dall’Ufficio come base della presunzione (fatto noto) sussistessero nell’assetto allegato dall’Ufficio, contestando la plausibilità della relativa prova, in sé; c) allegare e provare nuovi elementi del contesto incompatibili o con il fatto noto della presunzione o con il suo risultato.

6. Un esempio concreto. La difesa contro un accertamento presuntivo.

Ad esempio, in concreto, il contribuente può contestare che, in un esercizio di ristorazione, al numero x di tovaglioli mandati in lavanderia (rilevato a posteriori e a campione dall’Ufficio) corrisponda la cifra y di ricavi. Per giungere a questo risultato il contribuente può seguire diverse strategie argomentative. Nell’ambito del tipo a) sopra descritto egli potrebbe contestare, in generale, che possa esistere una relazione tra tovaglioli e ricavi1 . Oppure, nel quadro delle argomentazioni di cui al tipo b) e con maggiore plausibilità, potrebbe contestare la prova del numero di tovaglioli (ad esempio, ove l’Ufficio avesse rilevato il numero di tovaglioli in un certo giorno, contestare che tale dato potesse costituire prova del numero di tovaglioli globale). Oppure ancora, allegando e provando fatti ulteriori: o incompatibili con il fatto noto (ad esempio provare che il ristorante è stato chiuso per sei mesi e quindi la proiezione del numero di tovaglioli giornalieri su base annua è infondata), o con il fatto presunto (ad esempio, producendo le distinte dei versamenti sul conto corrente bancario, che presentino ricavi congrui con la presunzione ricavabile dal numero di tovaglioli nei giorni in cui tale valore sia stato rilevato, maggiore in alcuni altri e inferiori in moltissimi altri giorni: ciò rende non implausibile che i versamenti siano una rappresentazione dei ricavi più fedele che non la presunzione). Si tratta, ovviamente, di semplici esemplificazioni: egli potrebbe incidere su quelli che abbiamo definito i parametri del contesto conoscitivo anche in altri modi (ad esempio dimostrando la regolarità delle scritture, la sua diligenza, ecc.). Oppure, e ancora, può indicare altri fattori (restando all’esempio della ristorazione, allegare e dimostrare una diversa dinamica dei prezzi nel locale — per ragioni personali o di politica individuale dei prezzi — o nella zona — per ragioni di assottigliamento del passaggio di clientela nel quartiere e simili). Coerente con le premesse poste fino qui è poi che anche per tale eventuale prova contraria del contribuente è richiesto uno standard di attendibilità variabile in relazione al contesto. Solo nelle ipotesi di cui al tipo c) il contribuente, eventualmente, allega delle prove. In nessuno dei tre casi, propriamente, assolve l’onere di una prova contraria in senso tecnico. Ciò è contraddetto dalle ricorrenti massime della giurisprudenza, secondo la quale, offerta la prova di una certa circostanza, spetterebbe al contribuente, in forza di un onere in senso tecnico, provare il contrario2 . Questo inquadramento concettuale operato dalla giurisprudenza, inteso alla lettera, coglierebbe solo una parte delle possibili difese (trascurando la possibile contestazione della plausibilità in sé della presunzione) e sembrerebbe non inquadrarla correttamente, evocando la figura dell’onere. La vicenda probatoria, invece, assume una scansione simile a una “partita di tennis” : l’Ufficio “serve” con l’avviso di accertamento, il giudice verifica, in contraddittorio con il contribuente, se l’argomentazione pubblica è “stata nelle linee” (le prove dell’Ufficio sono sufficienti in base al contesto)e, se così è, il contribuente che intenda sottrarsi alla soccombenza, di regola, deve rimandare la palla nel campo avverso con nuove prove contrapposte. Non c’è un inversione dell’onere della prova in senso proprio e un onere di prova contraria perché il giudice deve valutare se, rimanendo nella metafora, la “battuta” del Fisco era “in campo” (eventualmente ma non necessariamente alla luce delle contestazioni del contribuente).

7. I pericoli delle “motivazioni pigre” sulle prove.

Resta da riflettere sul perché un orientamento assolutamente consolidato della giurisprudenza prediliga invece l’inquadramento nell’onere della prova contraria. Come già accennato sopra, tale fenomeno ha probabilmente una sua spiegazione nella tecnica motivazionale. Assunto che l’illazione dell’Ufficio venga percepita come ragionevole e plausibile in base al contesto, risulta più agevole motivare con il sintetico richiamo all’esistenza di un onere contrario, non assolto, da parte del contribuente, che non diffondersi sulle ragioni per cui la prova è da considerarsi raggiunta. Se quanto precede è corretto, l’argomento “se il contribuente non assolve l’onere di prova contraria la circostanza deve ritenersi provata” andrebbe, più propriamente, inteso come segue: “in base agli elementi acquisiti dall’Ufficio sulla base di una istruttoria sufficiente la circostanza è da considerarsi provata: poiché le argomentazioni del contribuente non risultano convincenti e non risultano agli atti né vengono offerti e provati dal contribuente altri fatti incompatibili, l’accertamento è da considerarsi fondato”.

8. Le gravi conseguenze di un inquadramento concettuale errato. Seconda conseguenza: gli effetti teratogeni sul processo.

Ma tale errore di inquadramento non va solo censurato, formalmente, perché concettualmente errato e non va solo denunciato perché rischia di creare un onere privo di base legale e, soprattutto, precludere alla parte la principale difesa: contestare la non plausibilità del ragionamento probatorio. Esso genera veri e propri disastri sul piano processuale. Il punto è sempre la confusione tra prova e onere della prova. La prima, come si diceva, è uno strumento di convincimento, da valutare nell’ambito del giudizio di fatto, la seconda è una regola di giudizio da applicare nel caso di caso incerto. Solo la seconda è una questione giuridica, di diritto, dalla portata in realtà limitatissima: chi vince se manca la prova. La non sorvegliata gestione del concetto di onere della prova, costituisce un vero e proprio fattore processuale teratogeno. Si possono, infatti, osservare alcuni effetti perversi del non corretto utilizzo del concetto, produttivi di incertezze giurisprudenziali e sproporzionato aumento dei carichi di lavoro giurisdizionale. Onere della prova è la regola da applicarsi per stabilire chi vince in caso di mancata prova. Profilo completamente diverso è se sia stata raggiunta la prova, se le prove siano state adeguatamente valutate, se di tale valutazione sia data adeguata motivazione. Se Tizio abbia assolto il suo onere della prova non è affatto un problema di applicazione della relativa regola, ma una questione – di fatto – del tutto a valle (o, al limite, un giudizio sulla sufficienza della motivazione). Si assiste invece, sempre più frequentemente, alla surrettizia ammissione di tale giudizio in Cassazione, attraverso il passepartout dell’inquadramento nell’onere della prova. Motivi nei quali viene censurata, spessissimo anche dalla Avvocatura dello Stato, la valutazione della prova (profilo inammissibile in toto in Cassazione), cioè se la prova sia stata raggiunta o quanta prova sia stata raggiunta, ovvero la motivazione sulla prova (la cui ammissibilità andrebbe valutata negli stretti limiti di cui all’art. 360 n. 5), vengono travestiti in motivi, di diritto, sulla violazione delle regole sulla distribuzione dell’onere della prova, primario e secondario (o sull’asserita esistenza/inesistenza di un onere della prova contraria). Ma si tratta di cose evidentemente diverse. Una cosa è dire: in questa causa il giudice ha sbagliato ritenendo che una certa circostanza fosse stata provata. Cosa completamente diversa è dire: mancava la prova ma il giudice ha dato ragione alla parte che ne era “onerata”. Solo le sentenze che, assunto che la prova manchi, diano ragione alla parte che ne era onerata violano l’onere della prova, e sono sentenze rarissime. Un atteggiamento non sorvegliato di questo profilo lascia aperta una porta attraverso la quale passano migliaia di cause che potrebbero essere arrestate. Tale errore concettuale crea una cospicua porzione dell’arretrato davanti alla Suprema Corte, che potrebbe essere agevolmente evitato. In tale meritevole traiettoria si colloca la assai pregevole ordinanza in rassegna.

9. Le gravi conseguenze di un inquadramento concettuale errato. Terza conseguenza: effetti teratogeni di diritto sostanziale. Un case study: le società a ristretta base.

Tale errore, in una sorta di progressione, genera poi un terzo ordine di effetti perversi. Le decisioni sulla prova, siccome dipendenti dall’esame di circostanze di merito e di fatto della singola controversia, che sono ovviamente multiformi e infinitamente variabili, attraverso resoconti superficiali nella pubblicistica di bassa qualità, e una massimazione disattenta, creano una gigantesca massa di decisioni di legittimità apparentemente oscillanti su temi di diritto (quando, invece, non sono altro che decisioni diverse, per fattispecie diverse), che creano una incertezza di ritorno, un “rumore bianco” che funziona da, ulteriore, poderoso moltiplicatore del contenzioso. Il problema si aggrava poi quando la presunzione, applicata in modo rigido e inaffidabile a causa dell’effetto di apparente consolidamento determinato dalla non corretta massimazione di decisioni su temi di fatto, può finire per alterare, nella sostanza, gli equilibri di diritto sostanziale. Un caso pilota in tal senso riguarda la nota fattispecie della c.d. questione della distribuzione degli utili occulti delle società a ristretta base. Si parte da un tema di fatto e di prova: se sia plausibile che un socio abbia goduto di una distribuzione occulta di utile (distribuzione plausibile se l’utile era occulto e il socio in grado di comandare nella società e non risultino impieghi alternativi dell’utile). Se tale accertamento di fatto, da ripetere tutte le volte (come tutte le volte che si debba accertare se Tizio si è appropriato della cosa altrui, per esempio), attraverso massimazioni superficiali, diventa, sulla base dell’errore concettuale di cui sopra, un tema di diritto, il risultato finisce per avvicinarsi, nella sostanza, nell’attribuzione al al socio un reddito non distribuito. Si tratta di un errore progressivo, o meglio di una successione di errori: in un primo momento esso diventa un utile di cui non si è più accertata la distribuzione; in un secondo momento, un utile la cui distribuzione in fatto diventa irrilevante. Detto altrimenti, più la presunzione è rigida e più essa si trasforma, negli effetti sostanziali, a una finzione. Nella sostanza, allora, in modo assolutamente abnorme, un errore di inquadramento sistematico nella valutazione delle prove determina un effetto di diritto sostanziale. Sostanzialmente equivalente a una disciplina giuridica inesistente, cioè un regime di trasparenza degli utili delle società di capitali, privo di fondamento. L’erroneità di tale situazione non può neppure essere salvata evocando la discussa categoria delle presunzioni giurisprudenziali. A rigore, le presunzioni sono solo legali (inversioni dall’onere della prova prescritte dalla legge) o semplici (valutazioni di prove effettuate volta per volta). L’unico spazio possibile per la giurisprudenza è ripetere la valutazione. Se, come sopra rilevato, la Corte di Cassazione indulge, alla ricerca della giustizia del caso singolo anche nel merito, attraverso un uso errato del concetto di onere della prova a sceverare la correttezza del percorso probatorio del giudice di merito, essa introduce, a fianco della nomofilachia, una sorta di “filachia della prova”, che, non solo non è tra gli oneri della Corte Suprema (supremo giudice della legge e non terzo giudice del fatto), ma anche, reiterandosi e trasformandosi in massime diffuse dalla pubblicistica e nelle aule di giustizia, produce una serie di distorsioni evidenti. Esso moltiplica abnormemente l’arretrato in Cassazione, che diventa la sede per valutare la corretta applicazione di “prassi probatorie”, irrigidisce il giudizio sul fatto sulla base di oneri della prova inesistenti e concettualmente errati, e rischia di creare effetti assimilabili a “riforme giurisprudenziali”, cioè effetti simili a un mutamento delle regole sostanziali (nella fattispecie qualcosa di equivalente nei risultati a una riforma della tassazione degli utili).

10. Conclusioni

Ben vengano allora, a mio modestissimo avvito, ordinanze “igieniche” della Suprema Corte, come quella in rassegna. Esse non brillano solo per nitore sistematico e concettuale, ma si candidano anche a una sana profilassi delle aule di giustizia, riassestando sia l’assetto di poteri e diritti, ma anche ponendo le basi per una migliore efficienza del processo e di recupero di centralità, alta e sovrana, della Suprema Corte.

Prof.avv. Alberto Marcheselli Ordinario Diritto Tributario Università Genova, avvocato tributarista cassazionista

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