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Il profitto diventato confiscabile nel delitto previsto dall’art.10 del D.lgs 74/2000 (e affinità con l’art. 11)

Avv. Marina Smeralda Caini

Penale Tributario

Il profitto diventato confiscabile nel delitto previsto dall’art.10 del D.lgs 74/2000 (e affinità con l’art. 11)

1. Breve inquadramento dell’art. 10.

Il delitto previsto dall’art. 10 del D.lgs 74/2000 punisce “con la reclusione da tre a sette anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”. La ratio della previsione normativa risiede nella tutela dell’attività di verifica da parte degli organi preposti al controllo sull’osservanza degli obblighi dichiarativi e di pagamento delle imposte che, dunque, costituisce il bene giuridico protetto dalla norma. La condotta, pur dovendo essere assistita dal dolo specifico di evasione, si configura e si esaurisce nell’occultamento o nella distruzione dei documenti contabili; di conseguenza il reato si perfeziona con il compimento di una delle due azioni descritte e si consuma, nel primo caso quando i documenti siano ritrovati o non sia più possibile rinvenirli (configurando un reato permanente), nel secondo caso invece al momento della distruzione (reato, in tal caso, istantaneo). E’ dunque un reato di pericolo poiché l’offesa al bene giuridico tutelato è anticipata all’atto della realizzazione della condotta di impedimento o di ostacolo rispetto all’accertamento di un’obbligazione tributaria e del conseguente avvio della procedura di esazione del debito erariale e dei relativi accessori. Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, l’impossibilità di ricostruire il reddito o il volume d’affari non deve essere intesa in senso assoluto e sussiste anche quando sia necessario procedere all’acquisizione presso terzi della documentazione mancante o quando a tale ricostruzione si possa pervenire aliunde - conseguentemente quantificando l’importo dell’imposta dovuta- (cfr. Cass. Sez. III n. 37340 del 9/09/2019; vedi anche Cass. Sez. III n. 13212 del 20/03/2017). Un opposto orientamento minoritario ritiene invece che il reato non sia configurabile quando il risultato economico delle operazioni prive della documentazione obbligatoria sia ugualmente accertato in base ad altra documentazione conservata dall’interessato in quanto, in tal caso, mancherebbe la necessaria offensività della condotta (cfr. Cass. Sez. III n. 22126 del 8/05/2017). La peculiarità della fattispecie in questione, rispetto ai reati dichiarativi e di omesso pagamento, ha posto la problematica dell’individuazione del profitto confiscabile.

2. L’introduzione della confisca, diretta e per equivalente, nei reati tributari.

L’istituto della confisca -ed il prodromico sequestro diretto e per equivalente ad essa finalizzato- è stato introdotto per le violazioni tributarie dall’art. 1 comma 143 della L. 244/2007 (Finanziaria 2008) mediante il richiamo all’art 322 ter c.p. (che la prevedeva nei reati contro la Pubblica Amministrazione). Dall’operatività di tale norma, tuttavia, restava escluso l’art. 10 D.lgs.74/2000. La ratio dell’esclusione si fondava, appunto, sulla configurazione di tale delitto che appariva, prima facie, privo di alcun profitto. Di qui la ritenuta inconciliabilità con il fondamento ed i limiti della misura ablativa che, essendo destinata a neutralizzare quel genere di incremento patrimoniale, ne presuppone logicamente l’esistenza. Con la revisione del sistema sanzionatorio tributario operata dal D.lgs. 158/2015, la misura cautelare reale finalizzata alla confisca ha trovato la propria collocazione sistematica all’interno di tale disciplina con l’introduzione dell’art. 12-bis nel D.lgs 74/2000: la novità normativa, che pur si pone in rapporto di continuità con la precedente, risiede nell’inserimento del reato di cui all’art. 10 D.lgs 74/2000. Si è posto allora il problema dell’esegesi del concetto di profitto riconducibile all’ambito del delitto in questione per consentire l’applicabilità in concreto della nuova previsione.

3. Sintesi della “cronistoria” del concetto di profitto.

Occorre premettere che il profitto “si identifica con il vantaggio patrimoniale derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito” (così Cass. pen. Sez Un. n. 31617 del 26/06/2015; vedi anche Cass. pen. Sez. Un. n. 18114 del 15/12/1992). Nel concetto omnicomprensivo di “qualunque vantaggio”, rientra anche il “risparmio di spesa”; la Suprema Corte, coniando il termine di “risparmio-profitto” ha così chiarito che, in ambito tributario, “il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente è riferibile all'ammontare dell'imposta evasa, in quanto quest'ultima costituisce un risparmio economico correlato alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo, conseguendo un indubbio vantaggio patrimoniale "direttamente" derivante dalla condotta illecita e, come tale, ormai riconducibile alla nozione di "profitto" del reato (cfr. Cass. pen. Sez. VI n. 3635 del 20/12/2013 che richiama anche i precedenti: Sez. III, n. 1199/2012, Sez. III, n. 35807/2010, Sez. V, n. 1843 del 10/11/2011). Pertanto di regola, nei reati tributari, il profitto coincide con il mancato pagamento del tributo; nei reati dichiarativi e di omesso pagamento si identifica con il risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale.
Tale ricostruzione, del resto, è coerente con la nozione di “imposta evasa” definita dall’art. 1 d.lgs 74/2000 e con la finalità di tutela dell’erario che la speciale normativa penal-tributaria mira sia a prevenire (in tal senso, peraltro discutibilmente, l’aumento significativo delle pene -e l’abbassamento delle soglie di punibilità- operato con il D.L. 124/20219), sia a reprimere.

4. Il “caso” dell’art. 11.

Un’eccezione all’esegesi giurisprudenziale fin qui ripercorsa si rinviene a proposito dell’art. 11 d.lgs 74/2000; tale norma punisce le alienazioni simulate -e gli atti fraudolenti su propri beni- idonee a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. E’ opportuno premettere che l’art. 11, come l’articolo 10, punisce condotte non direttamente “di evasione” bensì ritenute idonee, qualora assistite dal dolo specifico di evasione, rispettivamente nel primo a diminuire o sottrarre la garanzia patrimoniale generica che, ai sensi dell’art. 2740 c.c., grava su tutti i beni del debitore sui quali il fisco ha diritto di soddisfarsi; nel secondo ad ostacolare od impedire il controllo sui regolari adempimenti dichiarativi e di pagamento delle imposte. Ne consegue che il concetto di profitto come delineato con riguardo ai reati dichiarativi ed omissivi, non sia perfettamente calzante alle peculiare fattispecie in esame. A fronte di un’eccezione difensiva che censurava la decisione del Tribunale del Riesame di Roma che aveva confermato il sequestro per equivalente per il reato di cui all’art. 11 sul presupposto che la condotta di tale delitto non produrrebbe un incremento del patrimonio dell’agente limitandosi a sottrarre i beni di costui alla pretesa del fisco, la Suprema Corte ha risposto che anche in tale fattispecie il profitto poteva essere egualmente inquadrato nel concetto di risparmio di spesa. Non solo, ma nel momento in cui siano maturati interessi e sanzioni amministrative “tale attività distrattiva dei beni, finalizzata a rendere infruttuosa la procedura di riscossione, comportava un risparmio di spesa che atteneva non più alla sola voce principale del credito erariale, ma concerne anche tutti gli accessori a quel tempo esigibili dal fisco” (cfr. Cass. Sez. V n. 1943 del 17/01/2012). La giurisprudenza successiva ha precisato che il profitto nell’ipotesi in esame è costituito dalla riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del contribuente, e dunque è pari al valore dei beni trasferiti fraudolentemente, non già dal risparmio derivante dall’omessa dichiarazione o dal mancato versamento dell’imposta (cfr. Cass. Sez. III n. 28796 del 4/07/2013; da ultimo Cass. Sez. V n. 5392 del 10/02/2020 e Cass. Sez. III n. 6164 del 17/02/2020). L’impostazione in esame è coerente con la costruzione della fattispecie come reato di pericolo tant’è che gli atti di disposizione devono necessariamente avere il carattere della fraudolenza (così Cass. Sez. Un. n. 12213 del 21/12/2017 e Cass. Sez. III n. 6926 del 21/02/2020) e l’elemento psicologico deve rinvenirsi nel dolo specifico di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o di sanzioni amministrative. Il “risparmio di spesa”, si estende anche agli interessi e sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito (cfr. Cass. Sez. Un. n. 18374 del 31/01/2013). Del resto, la lettera dell’art. 11 fa espresso richiamo agli accessori del tributo.
Secondo alcuni autori non sarebbe necessario che la procedura di riscossione coattiva sia iniziata, né conosciuta dall’agente (cfr. M. Romano, Il delitto di sottrazione fraudolenta di imposta (art. 11 D.lgs. 74/2000) in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2009, 3 1010; A. D’Avirro-M.Giglioli, I reati tributari, Ipsoa, Milano, 2012). E’ vero che l’art. 11, a differenza dell’abrogato art. 97 D.P.R. 602/1973 non richiede tale requisito. Non ci si può esimere, tuttavia, dall’osservare che tale interpretazione in seno ad un reato di pericolo, risulta ai limiti della costituzionalità sotto il profilo della sussistenza dell’elemento soggettivo qualora non sia accompagnata, quanto meno, da un rigoroso riscontro della “fraudolenza” della condotta.

5. Il profitto nell’articolo 10.

Il percorso seguito dalla Suprema Corte in relazione all’art. 11, ha contribuito all’elaborazione giurisprudenziale anche per l’art. 10.
In particolare, con la sentenza n. 166 del 7/01/2020, la III sezione della Corte di Cassazione, dopo aver ripercorso il concetto di profitto in generale e poi quello in particolare del delitto previsto dall’art. 11, applica analoghi principi all’art. 10. Come il primo, l’art. 10 è costituito alla stregua di reato di pericolo; tali delitti, detti anche “senza offesa” (cfr. F. Mantovani, Diritto Penale, Cedam 2020, pag. 233) prevedono, come già accennato, un’anticipazione della tutela del bene giuridico protetto; non solo, ma richiedono anche il dolo specifico, ossia una condotta “con intenzioni offensive”; quest’ultima è ritenuta dal legislatore idonea e sufficiente ad offendere il bene giuridico, con un giudizio da compiersi ex ante, analogamente all’istituto del tentativo. La sentenza in commento definisce tale reato “a consumazione anticipata”; il termine peraltro è discutibile perché in realtà il momento di consumazione del reato coincide con quello in cui la condotta, come delineata dalla norma, è portata interamente a termine; infatti la Corte di Cassazione finisce poi con il richiamare la “finalità di evasione” che, se è vero che “sorregge” la condotta, attiene però all’elemento soggettivo, non a quello materiale. La III Sezione della Corte osserva che gli organi accertatori possono comunque riuscire ad accertare il reddito o il volume di affari, ad esempio rinvenendo, anche solo parziali documenti contabili, ovvero acquisendoli da terzi (come nel caso delle fatture), e così quantificare l’importo evaso a seguito della ricostruzione effettuata, nonchè gli interessi e le sanzioni dovute. Infatti: “nel delitto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, allorquando l'importo dell'evasione sia stato aliunde determinato, è configurabile il profitto del reato, suscettibile di confisca, anche per equivalente, e di sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 c.p.p., comma 2 bis, con riguardo al tributo evaso e ad eventuali sanzioni ed interessi maturati sino al momento dell'occultamento o distruzione delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, trattandosi di risparmio di spesa che costituisce vantaggio economico immediato e diretto della condotta illecita tenuta” (cfr. Cass. sopra citata). Tale conclusione, prosegue la Corte, non sarebbe inficiata dalla considerazione che l’illecito sia in realtà già stato conseguito dal contribuente a seguito della commissione di un reato dichiarativo precedentemente commesso ovvero, laddove non siano state superate le soglie di punibilità, di un illecito amministrativo -penalmente non rilevante-: “si tratta invero di condotte illeciti (penali e/o ammnistrative) distinte, che ben possono concorrere ed in relazione a ciascuna delle quali è astrattamente configurabile un illecito profitto” il quale in alcuni casi potrebbe essere coincidente ma che, “fermo il divieto di duplicazione della confisca, non ne esclude la configurabilità in relazione a ciascun illecito”(cfr. idem). Il concorso fra reati dichiarativi e art. 10 peraltro, è pacificamente ammesso in giurisprudenza poiché non si ritiene configurabile una relazione di genere a specie in grado di legittimare l’applicazione dell’art. 15, bensì un “mero fenomeno di interferenza determinato dalla peculiarità del fatto concreto” (così Cass. pen. Sez. III, n. 12455 del 1/12/2011). Nello stesso senso la sentenza della Cass. Sez. III n. 30934 del 6/11/2020 che richiama la precedente e che precisa che, qualora la fattispecie sia contestata in concorso con un delitto dichiarativo, il profitto sequestrabile e confiscabile “sarà determinato una sola volta per l’importo corrispondente al medesimo debito d’imposta”. Diversamente invece, nel caso in cui la condotta di cui all’art. 10 sia commessa in relazione all’accertamento fiscale costituente mero illecito amministrativo (perché sotto la soglia di punibilità), non vi sarà alcun problema di duplicazione.

Qualora tuttavia non si riesca a ricostruire, neppure in parte, il reddito o il volume degli affari, non è possibile individuare un illecito profitto suscettibile di confisca – diretta o per equivalente – conseguente alla condotta criminosa.

Pertanto solo quando si riesca a ricostruire il reddito o il volume di affari diventa possibile applicare la regola generale che prevede la confisca del profitto del reato, anche nella forma per equivalente, al momento dell’integrazione del reato; profitto che consiste nell’indebito vantaggio economico commisurato al debito d’imposta – eventualmente maggiorato di interessi e sanzioni dovuti sino al momento della commissione del fatto criminoso – altrimenti ignoto, e di cui la condotta di occultamento o distruzione dei documenti contabili ha ostacolato la scoperta, consentendo al relativo autore di evitarne l’accertamento e l’esazione.

Tale conclusione, se da un lato ha una coerenza logica, dall’altro si atteggia come premiale nei confronti del contribuente che meglio occulti o distrugga le scritture contabili, ovvero sia sottoposto a verifica da operatori meno zelanti o anche meno fortunati nel ritrovamento di documenti utili presso terzi.

L’affinità del concetto di profitto nei due articoli sopra esaminati, sta nella circostanza che entrambi, nonostante siano reati di pericolo, intervengono in realtà in un momento in cui l’agente ha già commesso un’evasione d’imposta non ancora accertata e/o per la quale non sia iniziata o conclusa la riscossione coattiva. Per questo in entrambi i casi il profitto si estende anche agli interessi e alle sanzioni.

Avvocato Marina Smeralda Caini, penalista in Firenze

02.04.2021

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