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Riforma Irpef: intervento di Vincenzo Visco alle Camere

Formazione Uncat

Ordinamento tributario, riforme e professione

Audizione nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario. Commissioni riunite Finanze (Camera dei Deputati), e Finanze e Tesoro (Senato della Repubblica).

Testimonianza di Vincenzo Visco, già Ministro delle Finanze e Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione

Signori Presidenti, onorevoli Parlamentari, Non c’è dubbio che il sistema fiscale italiano versi in condizioni molto serie e necessiterebbe di una revisione complessiva. Del resto, sono passati più di 20 anni dall’ultima riforma organica, quella del 1996-2000, che a sua volta interveniva, dopo oltre 20 anni dalla riforma del 1973, con lo scopo di riportare a coerenza un sistema che era stato progressivamente snaturato da molteplici interventi privi di logica e sistematicità.

Oggi la situazione è molto simile: negli ultimi 20 anni sono state introdotte norme e interventi settoriali, episodici, privi di coerenza e razionalità, con la previsione di bonus, incentivi, detassazioni, aumenti e riduzioni di aliquote (soprattutto per quanto riguarda i redditi di capitale e di impresa), esenzioni, regimi sostitutivi. Non di rado le norme introdotte appaiono arbitrarie tanto da dare l’impressione che il sistema si sia trasformato nel luogo della discrezionalità, quasi un pretesto per l’introduzione di deroghe, trattamenti speciali e favori estemporanei.

In realtà un sistema fiscale dovrebbe essere un insieme coerente di istituti, prescrizioni e procedure, basato su principi economici chiari, e costruito al fine di ottenere il gettito desiderato nella maniera più efficiente possibile, cercando di minimizzare i costi amministrativi e le distorsioni economiche, con un assetto il più possibile semplice e trasparente, ed evitando ogni discriminazione ingiustificata tra contribuenti.

Oggi così non è, e l’Irpef è l’esempio più evidente delle difficoltà in cui il sistema si trova attualmente.

Storia dell'introduzione del sistema Irpref

L’imposta personale sul reddito rappresenta da molto tempo il tributo principale dei sistemi fiscali dei Paesi sviluppati. Essa fu introdotta nel XIX secolo in Inghilterra e in altri Paesi europei accompagnando la nascita e lo sviluppo delle economie industriali. Negli Stati Uniti venne introdotta nel 1913, con aliquote molto basse, comprese tra l’1% e il 7%, ma progressivamente la sua incidenza aumentò rapidamente diventando un’imposta di massa, la principale del sistema. Durante la seconda guerra mondiale essa forniva un terzo delle entrate complessive del bilancio, con aliquote comprese tra il 23 e il 94%, con 24 scaglioni. Dopo la guerra e fino alla riforma Reagan degli anni ’80 la sua struttura rimase sostanzialmente la stessa, salvo l’aliquota più bassa, ridotta al 14% e quella più elevata ridotta al 70%. La stessa struttura dell’imposta si riscontrava peraltro in tutti i principali Paesi industriali.

L’idea di fondo era quella di un prelievo sul reddito complessivo di ogni individuo (o famiglia), da qualsiasi fonte provenisse, da assoggettare ad aliquote progressive, crescenti per brevi intervalli di reddito, e con poche deduzioni o detrazioni personali. L’obiettivo era quello di garantire al bilancio pubblico una quota (rilevante) del reddito nazionale prodotto ogni anno, in modo diretto e per quanto possibile semplice.

In Italia

In Italia l’Irpef fu introdotta solo nel 1973, in seguito ad un dibattito iniziato subito dopo la conclusione della guerra, e culminato nella pubblicazione nel 1964 della relazione “Sullo stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria” diretta dal prof. Cesare Cosciani: l’imposta si ispirava al modello prevalente allora in vigore in tutti i principali Paesi, che includeva nella base imponibile tutti i redditi, quelli da lavoro, ma anche quelli dei terreni e dei fabbricati, i profitti e gli interessi, redditi che dovevano essere tassati pienamente, ai valori di mercato, e con aliquote progressive. All’Irpef così strutturata, doveva aggiungersi un’imposta sul patrimonio. Questo modello venne poi abbandonato a causa di un “mutamento di indirizzo” all’interno della Commissione che portò alle dimissioni di Cosciani il cui ruolo fu preso da Bruno Visentini. In conseguenza la logica della proposta venne radicalmente mutata: i redditi dei terreni e dei fabbricati continuarono ad essere determinati in base a valori catastali che poco corrispondevano alla effettiva situazione economica del bene, ed erano molto inferiori a quelli reali, mentre per i redditi di capitale si optò per una serie di imposte sostitutive differenziate a seconda dell’emittente, e. per la prima volta nella storia tributaria del Paese si stabilì l’esenzione degli interessi delle obbligazioni pubbliche non solo dall’Irpef, ma anche dall’Ilor e dall’Irpeg, introducendo un incentivo all’indebitamento pubblico che permane ancora oggi.

La conseguenza fu non solo una forte erosione della base imponibile della nuova imposta, ma anche l’introduzione di forti disparità sul piano distributivo, dal momento che a parità di reddito complessivo, il carico fiscale poteva differire in misura anche sostanziale tra un contribuente ed un altro. In altre parole la nuova imposta nasceva in modo incoerente e distorto rispetto alla logica di un’imposta generale, personale sul reddito complessivo, tanto più che la struttura delle aliquote si articolava su 32 scaglioni di reddito, un’aliquota minima del 10%, e una massima del 72%.

Queste caratteristiche originarie permangono ancora oggi. L’Irpef italiana non è mai stata un’imposta generale progressiva sul reddito, ma solo un’imposta speciale progressiva su alcuni redditi percepiti dalle persone fisiche.

Va detto, però, che negli ultimi decenni, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, la struttura delle imposte sul reddito è fortemente cambiata in tutti i Paesi, soprattutto in relazione a due elementi caratterizzanti: l’onnicomprensività del prelievo e la struttura della progressività dell’imposta. In particolare i redditi da capitale sono stati progressivamente esclusi dalla base imponibile, e le aliquote più elevate sono state considerevolmente ridotte, così come il numero degli scaglioni.

Le modifiche degli anni '80

Ciò è dipeso da due fattori principali: il primo è stato la liberalizzazione dei movimenti di capitale che, insieme alla globalizzazione finanziaria, ha creato un contesto di concorrenza fiscale tra Paesi rendendo problematica la tassazione progressiva di redditi con elevata mobilità come sono quelli di capitale che quindi sono stati progressivamente esclusi dalla base della imposta progressiva e tassati con aliquote proporzionali ridotte; il secondo fu la forte inflazione che attraverso il fiscal drag determinava un incremento automatico dell’imposta grazie allo spostamento dei redditi nominali negli scaglioni più elevati, con relativo aumento di gettito e riduzione del reddito reale del contribuente, senza che ciò fosse deciso da un intervento parlamentare. In tale situazione pochi scaglioni di ampia dimensione erano in grado di ridurre l’entità del fenomeno.

Oggi ambedue queste motivazioni sono venute meno, data l’assenza di inflazione da un lato, e la ben maggiore collaborazione fiscale nello scambio di informazioni tra Paesi, dall’altro che ha ridotto le possibilità di elusione, Quindi si può cominciare a ragionare senza farci condizionare da vecchi meccanismi di ragionamento.

La nuova situazione che si era creata negli anni ’80 in relazione all’imposta sul reddito, è stata razionalizzata a livello scientifico in un nuovo modello di riferimento, quello della cosiddetta Dual Income Tax: questa soluzione supera l’onnicomprensività della base imponibile e prevede la distinzione tra redditi di lavoro e redditi di capitale, i primi continuerebbero ad essere sottoposti ad aliquote progressive, mentre i secondi ad un’unica aliquota proporzionale pari a quella iniziale della scala prevista per la parte progressiva dell’imposta, in modo da garantire la neutralità dell’imposizione sui redditi di capitale, limitare i rischi di concorrenza fiscale, ed evitare distorsioni e arbitraggi fiscali: una unica imposta, ma due diversi meccanismi di calcolo e di prelievo.

La riforma del 1996-2000

Alla soluzione Dual Income Tax si ispirò la riforma italiana del 1996-2000. Le molteplici aliquote e trattamenti diversi in vigore per i redditi da capitale furono accorpate su due soli livelli: 12,5% per gli interessi sui titoli di Stato, sulle obbligazioni, e sui dividendi, e 27% per gli interessi sui depositi. Venne introdotta una razionale imposizione delle plusvalenze maturate, prevedendo un equalizzatore per quelle per cui il pagamento era previsto al momento del realizzo. Per le società di capitale, sempre seguendo il modello DIT, si introdusse un’aliquota ridotta del 19% sul rendimento figurativo degli incrementi di capitale proprio, a fronte di un’aliquota ordinaria del 37%. Il passo finale doveva essere l’unificazione di tutte le aliquote al 19% che era allora l’aliquota iniziale dell’Irpef.

Il processo di riforma rimase incompiuto, a causa del cambio di Governo nel 2001. Ma dopo oltre 20 anni, e vista la proliferazione di nuove aliquote e trattamenti per queste tipologie di reddito, si può essere scettici circa la possibilità di introdurre nel nostro Paese un sistema coerente di Dual Income Tax che appare vulnerabile alle pressioni degli interessi coinvolti che premono per agevolazioni settoriali, mentre a livello decisionale si è poco consapevoli del fatto che i trattamenti preferenziali introdotti, oltre a creare disparità di trattamento non giustificate, creano ampie possibilità di elusione, distorsioni allocative e soprattutto tendono a beneficiare gli intermediari (le banche), piuttosto che l’oggetto della agevolazione introdotta.

La necessità di rendere omogenea la tassazione dei redditi da capitale rimane quindi uno dei problemi principali della nostra tassazione dei redditi personali, su cui sarebbe necessario ed urgente intervenire in sede di riforma. La tassazione ordinaria va estesa anche agli interessi dei titoli di Stato partendo da quelli di nuova emissione, eliminando un incentivo anacronistico e poco giustificato all’indebitamento pubblico.

Misura necessaria, ma anche agevole, se si considera che il possesso diretto di questi titoli da parte delle famiglie, è oggi molto ridotto.

Oltre ai redditi da capitale, l’esclusione di componenti reddituali dalla base imponibile appare comunque molto consistente. Per una valutazione grossolana, ma efficace dell’entità del fenomeno (e di quello, collegato, dell’evasione), basta considerare che la base imponibile dichiarata ai fini Irpef risulta compresa tra gli 800 e i 900 miliardi, mentre il reddito nazionale netto, che può essere preso come base di riferimento, si colloca tra i 1500 e i 1600 miliardi.

Il fenomeno dello svuotamento della base imponibile dell’imposta è continuato, accelerandosi, negli ultimi anni, fino a ridurre l’imposta a un simulacro di quella che in teoria dovrebbe essere.

Esclusioni ed esenzioni

Gli esempi più evidenti, in una elencazione non esaustiva, sono l’esclusione nel 2000 del reddito imputato della casa di abitazione, mentre veniva mantenuta la deduzione degli interessi passivi sui mutui ipotecari; l’introduzione nel 2008 di detrazioni per i canoni di locazione per i bassi redditi, e nel 2011 di una aliquota sostitutiva del 21% per i fitti percepiti, riducibile al 10% per i fitti concordati, poi estesa nel 2019 anche ai fitti di alcuni immobili ad uso commerciale; la detassazione, dal 2008, al 10%, dei premi derivanti dalla contrattazione aziendale; l’esclusione nel 2018 dei dividendi e plusvalenze derivanti da partecipazioni qualificate; la tassazione agevolata prevista per il cosiddetto rientro dei cervelli che pare sia servita soprattutto a ridurre il costo dell’acquisto di calciatori di qualità; nel 2017 l’esclusione dall’Irpef, fino al 2021, e la tassazione catastale a partire dal 2022, dei terreni e dei relativi redditi, esclusi anche dall’Irap e dall’Imu, sicchè attualmente gli operatori del settore agricolo ricevono i servizi pubblici come tutti gli altri cittadini, ma pagano per essi esclusivamente le imposte indirette, situazione unica e inquietante.

In questo contesto si colloca la robusta detassazione (2019) delle cosiddette partite Iva fino a 65.000 euro di fatturato, che coinvolge il 60% dei lavoratori autonomi e piccoli imprenditori. senza l’applicazione dell’Iva e delle addizionali Irpef regionali e comunali e prevedendo un regime forfettario e un’aliquota del 15%, creando così una grave discriminazione con i lavoratori dipendenti con lo stesso reddito, fornendo incentivi alla mancata o falsa fatturazione e alla trasformazione di lavoro dipendente in lavoro autonomo, introducendo forti distorsioni nella concorrenza tra operatori, e favorendo il nanismo imprenditoriale e la polverizzazione delle attività.

Voglio ricordare che chi vi parla è stato il primo ad introdurre, nel 2007, per le attività minori un sistema di tassazione forfettario che peraltro non ha funzionato particolarmente bene. Oggi ritengo che il forfait andrebbe abolito, e sostituito con un meccanismo che, analogamente a quanto avviene per l’iva dell’agricoltura, preveda un’aliquota di compensazione per i primi 10-15000 euro di fatturato in modo che agli operatori minori venga assicurato un sussidio che abbatte il carico fiscale complessivo e un incentivo a fatturare correttamente. A parità di costo per l’erario, vi sarebbero trasparenza e fiscalità tollerabile anche per gli operatori più piccoli.

Queste sono solo alcune delle misure che vengono classificate nelle cosiddette spese fiscali che in buona parte si concentrano proprio sull’Irpef, e cioè quell’insieme di esenzioni, esclusioni dall’imponibile, deduzioni, aliquote agevolate, regimi sostitutivi, detrazioni e crediti di imposta…che riducono l’imposizione rispetto a quella che dovrebbe essere in assenza di trattamenti preferenziali. Si tratta di un fenomeno che andrebbe contenuto e limitato.

Anzi, in proposito personalmente ritengo che andrebbe valutata seriamente l’ipotesi di integrare l’art. 53 della Costituzione prevedendo che il sistema tributario sia informato non solo a “criteri di progressività (l’equità verticale)", ma anche “di generalità e uniformità del prelievo per contribuenti con la stessa capacità contributiva” (equità orizzontale). In modo da rendere chiaro che eventuali abbattimenti, detrazioni, ecc. si giustificano se servono ad integrare la progressività o a promuovere la parità di trattamento dei contribuenti, e che gli incentivi fiscali si possono utilizzare solo per finalità ben definite, meritevoli, e possibilmente temporanee. Del resto la recente esperienza dell’erogazione dei cosiddetti ristori per gli effetti della pandemia, dimostra che esistono altri strumenti e modalità altrettanto efficaci e ben più trasparenti per perseguire interventi di sostegno per obiettivi specifici.

Va ancora osservato che la maggior parte di queste spese fiscali va a beneficio di contribuenti con redditi medi o elevati, e che spesso riguardano pochi contribuenti e perdite di gettito ridotte, per cui la loro eliminazione sarebbe indolore. Inoltre va sottolineato che una parte consistente di queste misure riguarda il settore immobiliare, già di per sè sotto tassato nel nostro ordinamento, e soprattutto l’abitazione principale, il che determina un aumento artificiale del valore degli immobili e un indebito arricchimento dei proprietari, e una distorsione degli investimenti delle famiglie che penalizza gli investimenti in altri settori. Si tratta anche di misure distorsive nel senso che vanno a beneficio degli anziani e non dei cittadini più giovani. Infine, non si giustifica la permanenza dell’incentivo per interventi di recupero del patrimonio edilizio in presenza del nuovo incentivo del 110%, che peraltro valuto positivamente.

Infine non va sottovalutato il fatto che di fronte a evidenti disparità di trattamento e/o favori fiscali elargiti piò o meno casualmente, anche i percettori di redditi di lavoro dipendente cominceranno a chiedere forfettizzazioni del prelievo che li riguarda. Ciò è già avvenuto con i premi di produzione e per il cosiddetto welfare aziendale, misure che in realtà tendono a beneficiare soprattutto le imprese oltre a penalizzare il sistema previdenziale.

Una possibile soluzione del problema, oltre alla razionalizzazione dell’intero comparto, potrebbe essere quella di stabilire un limite massimo per l’utilizzazione delle detrazioni al 19%, lasciando al contribuente la scelta di quali privilegiare e garantendo un consistente recupero di gettito per l’erario.

Come riformare l'IRPEF?

Le vie di uscita razionali dalla situazione che si è creata sono diverse. Tutte dovrebbero avere però l’obiettivo di riportare tutti i redditi ad una tassazione ragionevole e ad una sostanziale parità di trattamento.

La prima soluzione sarebbe ovviamente quella di ritornare ad un’imposta personale sul reddito onnicomprensiva. Dubito però che ciò sia praticamente e politicamente possibile. La storia degli ultimi decenni è andata in altra direzione.

La seconda possibilità sarebbe quella di applicare compiutamente il modello Dual Income Tax: Tutti i redditi di lavoro, incluso il contributo lavorativo dei titolari di impresa individuale, dovrebbero essere assoggettati ad un prelievo progressivo, mentre a tutti gli altri redditi, compresi i fitti e i redditi imputati dei fabbricati valutati in base a un catasto riformato, oltre ai redditi da capitale, profitti e plusvalenze inclusi, andrebbe applicata un’aliquota sostitutiva pari a quella base dell’Irpef progressiva, più un prelievo patrimoniale del 2 per mille o poco più che dovrebbe andare agli enti locali.

Infine, la soluzione che preferisco implica un prelievo progressivo sui soli redditi di lavoro (con un’aliquota massima non superiore al 50%), affiancata da un’altra imposta personale progressiva sul rendimento figurativo del patrimonio reale e finanziario posseduto. Si tratta della soluzione applicata in Olanda per la tassazione dei redditi di capitale che avrebbe il vantaggio rispetto alla DIT di poter escludere, grazie ad un minimo imponibile modesto, i contribuenti minori che possiedono solo una casa di proprietà di ridotto valore e depositi bancari (che sarebbero invece colpiti dalla DIT), e di inserire nel sistema un meccanismo incentivante in quanto i rendimenti più elevati, che riflettono anche l’assunzione di maggiori rischi, sarebbero agevolati, e quelli inferiori al rendimento ordinario penalizzati. Anche in questo caso una quota del gettito dell’imposta andrebbe devoluta agli enti locali.

Oltre alla base imponibile, l’altro elemento costitutivo di una imposta sul reddito è la struttura delle aliquote. Nella tradizione culturale ed etica dell’umanità, a partire almeno dall’Antico Testamento, il principio che l’imposizione debba gravare in misura proporzionalmente maggiore sui più ricchi è profondamente radicato. Nella teoria economica gli utilitaristi inglesi hanno sottolineato come i redditi più elevati mostrano una capacità contributiva maggiore. L’art. 53 della Costituzione stabilisce formalmente che l’intero sistema tributario dovrebbe essere orientato in senso progressivo. In realtà così non è. Gli studi disponibili relativi all’intero sistema mostrano che le tasse in Italia (ma non solo) risultano, nel loro complesso, progressive per i redditi più bassi, proporzionali per gran parte dei contribuenti, e regressive per i redditi più elevati.

Irpef unica tassa progressiva

Tra le nostre imposte l’Irpef è l’unica chiaramente ed esplicitamente progressiva. Essa, oltre a produrre il 40% del gettito tributario, fornisce un contributo rilevante alla redistribuzione del reddito riducendo l’indice di concentrazione dei redditi netti (Gini) di oltre un quarto. Tuttavia se si osserva l’andamento della curva, è facile verificare che tale progressività è concentrata essenzialmente sui redditi bassi per i quali l’andamento appare quasi verticale, e molto meno per i redditi elevati. Ciò è dovuto all’appiattimento delle aliquote che si è verificato negli ultimi decenni, passando dai 32 scaglioni del 1973 ai 5 attuali. Inoltre l’andamento appare erratico, con intervalli in cui le aliquote marginali effettive si riducono anziché crescere. Ciò è dovuto al meccanismo delle detrazioni decrescenti, introdotto per conciliare le esigenze di gettito con la riduzione della imposizione sui redditi più bassi, che crea aliquote implicite che si sommano a quelle formali, e più recentemente al bonus degli 80 e poi 100 euro che ha lo stesso effetto. Ciò ha prodotto delle conseguenze di qualche rilevanza: per esempio, fino al 2013, l’Irpef reale per un lavoratore dipendente senza carichi di famiglia, oltre ad una aliquota iniziale pari a 0 fino a 8000 euro, presentava in sostanza due sole aliquote effettive: 30-31% e 41%, più l’ultima del 43%, pressoché irrilevante in pratica. Nel 2014, alle due aliquote prevalenti se ne era aggiunta una terza del 27,51% tra 8.417 e 15.000 euro. L’andamento più erratico si verifica nel 2015 con un’aliquota massima del 79,5% tra i 24.000 e i 26.000 euro. e discesa e risalita successive. Oggi le aliquote marginali effettive sono 8 e risultano crescenti fino ad un massimo del 60,82% tra i 35.000 e i 40.000 euro, per poi ridursi intorno al 41% (V. Appendice), e con salti tra uno scaglione e l’altro di 14-15 punti. Si tratta di un assetto del tutto stravagante che deve essere corretto.

Ciò significa che una buona riforma della struttura delle aliquote dell’Irpef dovrebbe essere in grado di riassorbire al suo interno il bonus 100 euro, e che le detrazioni dovrebbero tornare ad essere fisse, costanti per tutti i livelli di reddito.

Il grado e la forma della progressività di una imposta sul reddito sono scelte prevalentemente politiche. Ciò che va chiarito comunque è che nel passaggio da un sistema con molti scaglioni ed aliquote marginali, a un sistema con pochi scaglioni ed aliquote, o addirittura a un sistema con una sola aliquota che affida la progressività alle sole detrazioni /deduzioni, ciò che avviene è una redistribuzione, a parità di gettito, del prelievo dell’imposta a carico dei ceti medi e a favore dei più ricchi. Ciò è evidente nel caso italiano se si confronta l’andamento della curva del 1973 con quella attuale. Quest’ultima presenta un eccesso di tassazione, una “gobba” in corrispondenza dei redditi compresi tra i 20-25.000 euro e i 50.000 euro che risultano relativamente e sostanzialmente penalizzati dalla struttura attuale; è bene ricordare che in quell’intervallo si colloca circa la metà dei contribuenti Irpef, e che i contribuenti con redditi imponibili superiori a 50.000 euro sono solo circa il 5% del totale. La penalizzazione dei ceti medi è accentuata dall’andamento decrescente delle detrazioni, oltre che dalla struttura di aliquote e scaglioni. Questa è quindi la scelta politica da compiere nel confronto tra i due modelli.

“Raddrizzare” la curva dell’Irpef, tagliare la “gobba”, non implica necessariamente un aumento rilevante delle aliquote più alte. Tutto dipende dall’ammontare di gettito a cui è possibile rinunciare. Il costo dell’operazione ammonterebbe a un punto, un punto e mezzo di Pil, che è poi il gettito in più che l’Irpef italiana assicura all’erario rispetto a quella degli altri Paesi europei. In un contesto di riforma, la possibilità di una ricomposizione del prelievo tra imposte diverse non va certo esclusa.

L'introduzione di una funzione matematica

Si discute anche sulla opportunità di sostituire gli scaglioni di reddito con una funzione matematica continua in grado di indicare l’aliquota media da applicare al reddito imponibile. Questa soluzione è già stata adottata in Italia con l’imposta complementare, ed è da sempre in funzione in Germania. Personalmente suggerisco questa soluzione da molto tempo. Rispetto alla imposta a scaglioni che evidenzia le aliquote marginali, mentre quelle medie vanno calcolate, la funzione continua evidenzia le aliquote medie, mentre quelle marginali andrebbero calcolate. Nella situazione attuale dell’Irpef italiana è difficile sia conoscere le aliquote marginali che calcolare quelle medie. La funzione continua implicherebbe una crescita graduale e omogenea dell’incidenza della imposta, e impedirebbe per il futuro interventi poco razionali di manipolazione degli scaglioni e delle detrazioni.

Scarsa attenzione viene invece dedicata a un problema piuttosto serio, e cioè la possibilità concessa a Comuni e Regioni di introdurre addizionali locali all’Irpef. Ciò determina distorsioni erratiche della progressività il cui grado dovrebbe essere una scelta politica di fondo, omogenea per tutti i contribuenti, da decidere in sede parlamentare, e un ulteriore aggravamento del prelievo sui ceti medi. In conseguenza sarebbe opportuno trasformare le addizionali in sovraimposte.

Quanto alle detrazioni, condivido l’ipotesi di un assegno universale che assorba le detrazioni (anche quella per il coniuge) e gli assegni familiari. In sede di attuazione bisognerà valutare attentamente il coordinamento con l’Irpef e il reddito di cittadinanza per evitare situazioni di trappola della povertà. Le altre detrazioni dovrebbero essere costanti e non decrescenti per evitare incrementi impliciti delle aliquote formali e la conseguente erraticità dell’incidenza dell’imposta. Oggi le detrazioni sono diverse per i lavoratori dipendenti, cui è concessa, giustamente, una detrazione forfettaria per le spese di produzione del reddito, per i pensionati, e per i lavoratori autonomi. In verità per i pensionati potrebbe essere giustificata una speciale detrazione per l’età avanzata, mentre per i lavoratori autonomi non sarebbe insensata la previsione di una specifica detrazione a fronte del maggior rischio implicito nell’attività autonoma. Ne deriva che non sarebbe ingiustificato articolare queste detrazioni in modo da ottenere un ammontare eguale per tutti i contribuenti.

Conclusioni: evasione fiscale ed emergenza Covid

Prima di concludere vorrei aggiungere due ulteriori osservazioni. L’evasione fiscale di massa è il problema principale del sistema fiscale italiano che condiziona la composizione del prelievo e determina l’incidenza eccessiva sui redditi di lavoro dipendente e pensione. Quando l’emergenza Covid sarà terminata, la situazione della finanza pubblica italiana sarà caratterizzata da un aumento strutturale di spesa corrente a causa degli interventi necessari nei settori della sanità, istruzione, assistenza, trasporti. Al tempo stesso il bilancio pubblico dovrà essere riportato sotto controllo. Ciò significa non solo che non sarà facile ridurre la pressione fiscale complessiva, ma anche che saranno probabilmente necessarie nuove risorse. Sembra quindi essenziale predisporre una vera e propria terapia d’urto contro l’evasione che sia efficace e risolutiva. Le proposte esistono; vanno applicate con determinazione.

Infine vorrei sollecitare l’attenzione su una trasformazione di fondo intervenuta negli ultimi decenni nelle economie dei Paesi sviluppati e che ha forti conseguenze sulla funzionalità (e l’equità) dei sistemi fiscali: la caduta dei redditi di lavoro rispetto al prodotto complessivo. Poiché una caratteristica comune dei sistemi fiscali del dopoguerra è stata quella di fare affidamento su basi imponibili in cui i redditi di lavoro, e in particolare quelli di lavoro dipendente, giocavano un ruolo molto importante (imposte sul reddito e contributi sociali), la progressiva contrazione di queste fonti di prelievo ha contribuito fortemente alle difficoltà di finanziamento dei bilanci pubblici. In sintesi, mentre fino agli anni ’80 del secolo scorso, i redditi di lavoro rappresentavano percentuali del reddito complessivo pari al 60-65%, oggi tale quota, comprensiva anche dei redditi di lavoro indipendente, risulta in Italia inferiore al 50% (47%), al contrario, i prelievi, fiscali e contributivi, direttamente commisurati ai redditi di lavoro, rappresentano il 18% del Pil e quelli commisurati agli altri redditi solo il 6%. In altre parole, il 47% del reddito prodotto paga oggi il 75% del gettito fiscale complessivo, e il 53% solo il 25%. Si tratta di uno squilibrio eccessivo, alla lunga insostenibile, che penalizza l’impiego di lavoro (cuneo fiscale) ed indica la necessità di traferire una parte del prelievo sui redditi di capitale riducendo l’Irpef e fiscalizzando i contributi sociali.

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