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Un Giudice Tributario Per l'impresa: essenziale, efficiente, equidistante

Avv. Massimo Basilavecchia

Ordinamento tributario, riforme e professione

Un Giudice Tributario Per l'impresa: essenziale, efficiente, equidistante

Il tema assegnato impone di rispondere ad una sola, semplice domanda: cosa si aspetta un’impresa – qualsiasi forma giuridica essa abbia – da un giudice e da un giudice tributario in particolare? La risposta può apparire scontata: si aspetta di avere delle certezze, di averle in tempi rapidi, di dover richiedere il suo intervento solo sporadicamente potendo risolvere i contrasti, normalmente, in via amministrativa; e di trovarlo disposto a calarsi nella logica delle scelte imprenditoriali senza giudicare aprioristicamente i suoi comportamenti come votati all’abuso o all’evasione. Ho pensato a tre caratteri che si esprimono con parole che cominciano con E: essenziale, efficiente, equidistante. Esiste un altro fondamentale aggettivo che inizia con E, effettiva, ma mi pare possa essere assorbito dagli altri.

1. Per un giudice tributario ESSENZIALE

Credo che, in generale, in tutti i campi del diritto, l’impresa abbia bisogno di risoluzioni in tempi rapidi, ossia incompatibili con i giudizi. E dunque il ricorso al giudice deve avvenire di rado, e in genere devono essere il dialogo con l’amministrazione, o gli strumenti di compliance, a consentire la definizione. Dunque interpelli, cooperazione, collaborazione, affidamento. Sotto questo profilo, la legislazione degli ultimi anni ed in particolare del biennio 2015/2016 ha segnato passi avanti importanti, grazie anche ad una legge delega di riforma, la n. 23 del 2014, che pur disegnando una mera “manutenzione” del sistema esistente, ha creato i presupposti per un’inversione di tendenza, anche sotto l’influenza delle tendenze internazionali (della compliance si occupa in particolare la relazione del prof. Fabrizio Amatucci). Il potenziamento degli interpelli, l’ampliamento della possibilità di modificazione delle dichiarazioni presentate, l’adempimento collaborativo (sia pure riservato ad un’élite di imprese, destinata ad progressivo ampliamento), la nuova concezione del ravvedimento operoso, l’attenuazione della repressione penale conseguente all’aumento delle soglie di punibilità, hanno in effetti tracciato un percorso – che pare purtroppo in parte contraddetto dai provvedimenti di questi giorni collegati alla manovra di bilancio per il 2020 – che dovrebbe consentire in molti casi la definizione di questioni tributarie su base non contenziosa, e tanto meno processuale. E’evidente tuttavia che, nonostante l’abbondanza – eccessiva - di strumenti deflativi - c’è molto da fare, non tanto sul piano normativo (sul quale, probabilmente, emerge soprattutto l’esigenza di una semplificazione) quanto su quello dell’approccio delle Agenzie fiscali e in genere delle amministrazioni deputate all’amministrazione dei tributi, tuttora poco inclini a rivedere il proprio operato. Il divario tra qualche apprezzabile enunciazione di principio delle circolari e la prassi quotidiana resta molto ampio. Sarebbe a tal fine utile, in primo luogo, un’evoluzione della mediazione che la renda effettivamente tale, con un vero soggetto terzo che presieda ai tentativi di accordo pregiudiziali. Nell’ultima parte si dirà delle prospettive di riforma della giurisdizione tributaria, nel cui contesto sarebbe assai appropriato immaginare una sorta di camera precontenziosa, istituita presso i nuovi organi di giurisdizione, davanti alla quale condurre le procedure di mediazione. Gli ambiti sui quali agire per migliorare il rapporto tra amministrazioni finanziarie e imprese sono però più articolati e complessi, e in questa sede se ne può fare solo cenno. Ad esempio, quanto ad affidamento del contribuente, la relazione della Camera tributaria del Veneto ha posto l’accenno su un problema molto grave, quello delle misure agevolative restrittivamente interpretate in sede di controllo. Quelle misure sono concesse dal legislatore ricavandone consenso politico, ma vengono poi spesso smentite o ridimensionate in sede applicativa con ricadute sanzionatorie gravi e sproporzionate. Quando l’agevolazione è concessa in forma di credito d’imposta, essa ha un’indubbia efficacia, potendo essere oggetto di autoliquidazione in sede di versamenti spontanei del contribuente, ma un’eventuale successiva contestazione sui presupposti conduce a conseguenze gravissime, soprattutto se, come spesso accade, nonostante l’opinabilità dell’interpretazione delle norme applicative – spesso delegate dalla legge a provvedimenti amministrativi o di fatto dettate da atti non normativi quali le circolari e le risoluzione – il credito d’imposta utilizzato venga qualificato come inesistente, con ricadute penali e sulla aggressività della riscossione delle somme da recuperare. Dire che la giurisdizione tributaria deve essere essenziale significa anche che, quando l’accesso alla tutela non può essere evitato, il processo deve essere snello e veloce, e questo obiettivo è forse quello più compiutamente realizzato davanti alle attuali commissioni tributarie. E’ condiviso il riconoscimento che il giudizio tributario di merito è in genere rapido e interviene in tempi sufficientemente veloci. Resta il nodo dei tempi lunghi nei quali si esaurisce il giudizio in terzo grado davanti alla Corte di cassazione, nodo sul quale si può intervenire in vari modi, sia razionalizzando la distribuzione delle competenze nella Suprema Corte, ma soprattutto a monte rendendo la funzione nomofilattica più efficace nei tempi e nei modi attraverso una legislazione razionale, meno torrenziale, più rispettosa dei principi. Il ricorso al giudizio di terzo grado deve essere disincentivato non attraverso limitazioni delle attività difensive, come accaduto con l’ultima riforma che ha reso meramente eventuale – ed affidata alla sola decisione discrezionale e insindacabile del giudice - la discussione in pubblica udienza, ma eliminando a monte le ragioni di convenienza alla prosecuzione dei giudizi. Infatti, il numero delle sentenze di appello effettivamente impugnate in cassazione non è percentualmente alto, ma potrebbe essere ulteriormente diminuito, se il contribuente non avesse la ragionevole aspettativa di un futuro provvedimento di definizione della lite a condizioni vantaggiose, provvedimento che al contrario oggi può essere dato come assai probabile, data la frequenza con la quale negli ultimi anni qualsiasi governo ha inteso ricorrere ad una comoda forma di reperimento di gettito. Un’analisi andrebbe anche sviluppata su alcuni filoni giurisprudenziali che possono favorire la strumentale durata delle liti. Si pensi ad esempio alla portata preclusiva del giudicato c.d. esterno, ossia formatosi in altro processo tra le stesse parti. Quando, nel 2006, le sezioni unite hanno enunciato tale principio, a dispetto dell’autonomia dei periodi d’imposta, intendevano certamente combattere l’eccessiva durata dei processi ed evitare la possibilità del formarsi di giudicati contraddittori su questioni identiche. Il principio deve essere anche apparso congeniale all’impostazione teorica del giudicato tributario, secondo la giurisprudenza destinato a formarsi sull’accertamento di questioni di fatto e di diritto e non sulla legittimità e fondatezza dell’atto impugnato. Non vi è dubbio però che, se sulle parti grava il rischio, lasciando diventare definitiva una sentenza, di creare un vincolo su tutte le questioni analoghe che potranno essere implicate da successive vicende e da successivi atti impositivi, quelle parti faranno di tutto per impedire la formazione di un giudicato preclusivo; e saranno così indotte, in molti casi, a condurre sino al giudizio di cassazione anche controversie che, per il loro valore oggettivo, avrebbero potuto non essere coltivate dopo, ad esempio, il primo grado di giudizio.

2. Per un giudice tributario EFFICIENTE

Si è detto nel precedente paragrafo della velocità del giudizio tributario di merito, frutto soprattutto di un rito processuale da quarantacinque anni sostanzialmente omogeneo poiché basato su uno schema impugnatorio. Orbene, a me pare che le regole processuali attuali garantiscano anche efficienza, ossia permettono – almeno in astratto - una buona soluzione delle questioni. Sotto questo profilo, si può lavorare piuttosto sugli aspetti di dettaglio, che non sulla struttura del processo, rispetto alla quale resto di idee piuttosto conservatrici. La velocità del rito e anche la sua efficienza dipendono a mio avviso in gran parte dall’adozione di uno schema impugnatorio che consente al giudice, senza ripercorrere in giudizio le tappe dell’istruttoria amministrativa, di giudicare direttamente della legittimità e della fondatezza dell’atto impugnato. Nel successivo paragrafo, si vedrà come questa caratteristica, per non risultare lesiva del diritto ad una piena difesa delle parti, debba essere correttamente intesa, adottando un metro di giudizio molto severe nella valutazione di legittimità degli atti. Tuttavia, margini di miglioramento, nei tempi e nella completezza della tutela, certamente ci sono – sotto tale aspetto, entra in gioco anche l’altra caratteristica di cui si faceva cenno in apertura, ossia l’effettività della giustizia - : basti pensare alla tutela cautelare, troppo lenta (molte commissioni, come sappiamo, nemmeno fissano la trattazione della sospensiva); soprattutto al vuoto di tutela anticipata, da esercitare nella fase delle indagini, dato che sono cadute nel vuoto le sentenze della Corte EDU che, dalla decisione “Ravon” in poi, hanno stabilito la necessità che gli ordinamenti nazionali assicurino un controllo immediato da parte di un giudice sulla legittimità dei poteri di indagine più invasivi a carico del contribuente. Ci sono poi aspetti di dettaglio, che potrebbero migliorare la efficienza e l’effettività del diritto di difesa come ad esempio il lasso di tempo troppo breve tra comunicazione dell’avviso di trattazione e data dell’udienza o camera di consiglio: ma si tratta di rifiniture, che attengono poi a tutti i contribuenti, non solo alle imprese; si può fare a meno di trattarle nell’ambito di un discorso che è invece diretto all’analisi dei problemi di fondo della giurisdizione tributaria.

3. Per un giudice tributario EQUIDISTANTE

E’ il tema al centro del dibattito in corso sulla riforma del giudice tributario, per il quale, in sintesi, la maggioranza delle proposte politiche e delle opinioni degli addetti ai lavori sono favorevoli alla conservazione di una giurisdizione speciale, profondamente revisionata. Questo indirizzo sembra da condividere, rispetto a proposte che ipotizzano la devoluzione delle liti tributarie a uno dei plessi giurisdizionali già operanti e riconosciuti dalla Costituzione (giudice ordinario, giudice amministrativo giudice contabile, che da ultimo si è autocandidato). La giurisdizione tributaria merita conferma per una pluralità di ragioni: ormai essa è stata più volte riconosciuta costituzionalmente legittima in virtù della VI disposizione transitoria della Costituzione, ma la Corte costituzionale ha precisato che questa derivazione dagli organi preesistenti alla Costituzione non impedisce affatto plurimi interventi riformatori, con il solo limite della conservazione della materia, che non deve oltrepassare i limiti delle controversie tributarie per non incorrere nel divieto di istituzione di giudici speciali, che sarebbe violato se alla giurisdizione tributaria venisse ampliato l’ambito di competenze. Sembra quindi non solo legittimo ma doveroso e opportuno completare il percorso evolutivo secondo un disegno che elimini prima di tutto il part time dei giudici e recida poi il cordone ombelicale con il MEF per trasferire l’amministrazione del personale e delle strutture alle dipendenze della Presidenza del consiglio, come accade per tutti gli altri giudici speciali, ovvero del Ministero di grazia e giustizia. Da quando, nel 1992, è stato istituito il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, l’indipendenza e la terzietà del giudice tributario non può essere messa in discussione. E’ innegabile però che nell’impianto organizzativo vigente vi sia un vulnus all’esigenza di piena indipendenza e terzietà, derivante dal persistente cordone ombelicale con il Ministero che è sostanzialmente coinvolto dagli effetti economici delle decisioni delle commissioni tributarie; basti pensare alla erogazione del trattamento retributivo, che non ha nemmeno tempi certi. La richiesta di cambiamento, motivata con l’indiscutibile progresso che segnerebbe la piena autonomia della magistratura tributaria una volta che apparisse certamente equidistante dalle parti in causa (anche fisicamente: non si può amministrare la giustizia tributaria negli stessi palazzi dai quali partono gli atti impositivi da giudicare) è dunque soprattutto basata sull’esigenza di una ancora più certa e indiscutibile equidistanza dalle parti in causa; ma concorre con essa – e qui si torna a discutere di efficienza – l’aspirazione ad una maggiore qualità e accuratezza delle decisioni, e soprattutto a vedere i giudici impegnati a tempo pieno, con uno status del tutto garantista, in un compito difficilissimo, quale quello di amministrare la giustizia in un settore dall’impatto economico, etico e sociale del tutto prioritario. Ovviamente, acclarata l’esigenza di un ulteriore sviluppo, ci si chiede se, abbandonate le più significative specificità attuali della giurisdizione speciale, non sia più semplice devolvere il tutto agli organismi giurisdizionali già esistenti, i cui magistrati, oltretutto, danno già oggi, sia pure part time e come impegno secondario, un contributo notevole alla giurisdizione tributaria. Questa sembra essere la considerazione che ha ispirato la singolare autocandidatura della Corte dei Conti ad un proprio maggiore impegno e coinvolgimento nella giurisdizione sui tributi. Candidatura che ha trovato in grande maggioranza reazioni critiche, sia per la particolare funzione della Corte, custode e guardiano della finanza pubblica, e quindi orientato culturalmente alla salvaguardia dello stesso, sia per le peculiarità che connotano la giurisdizione contabile. Se infatti l’attuazione dei tributi vede nascere conflitti tra situazioni soggettive pretensive e oppositive che fanno capo ai contribuenti e alle amministrazioni finanziarie, le alternative alla situazione attuale sembrano da individuare piuttosto in competenze del giudice civile ordinario o del giudice amministrativo. Il primo, per essere giudice dei diritti e, in particolare, avvezzo a dirimere contrasti in tema di obbligazioni; il secondo, per essere il giudice dell’esercizio del potere. Ma anche rispetto a queste ipotesi, in prospettiva equidistanza, e considerando le aspirazioni del mondo imprenditoriale rispetto alla equidistanza del giudice tributario, la conservazione di una giurisdizione ad hoc, non solo speciale ma specifica, sembra essere preferibile, ed anche più in linea con la giurisprudenza costituzionale sui criteri di riparto della giurisdizione (sentenza n. 204/2004).
La composizione mista che andrebbe conservata alle nuove istituzioni della giurisdizione tributaria, ossia derivante da un reclutamento che coinvolga non solo laureati in legge, ma anche in discipline economiche e aziendali, dovrebbe essere mantenuta e garantire proprio quella sensibilità alla cultura dell’impresa che oggi troppo spesso manca. Le diverse posizioni espresse dai disegni di legge aventi ad oggetto la riforma della commissioni tributarie, dalle associazioni – l’UNCAT, prima di tutto - dalle proposte avanzate da gruppi di studio – qui segnalo il lavoro compiuto da un gruppo di lavoro costituito presso l’Istituto per il governo societario, che ha concluso presentando il 20 novembre 2019 una proposta di disegno di legge delega – sembrano abbastanza convergenti sulle scelte di fondo, e questo induce ad un moderato ottimismo. Il nodo centrale sembra essere quello dello status giuridico dei nuovo magistrati tributari, che dovrebbe consentire ai giudici ordinari amministrativi contabili e militari già impegnati nelle attuali commissioni di valutare concretamente, come scelta percorribile, la possibilità di opzione per la nuova magistratura; ed in tale contesto importanza centrale ha la disciplina transitoria, non essendo ragionevole pensare ad una rinuncia immediata alle professionalità attualmente impegnate nella giurisdizione tributaria. Il tema dell’equidistanza del giudice tributario non coinvolge soltanto i profili organizzativi; esso assume anche una dimensione più sostanziale, che tocca l’approccio culturale, scientifico, sociologico alla materia.
Occorre cioé che anche il giudice, in convergenza con il legislatore e l’amministrazione, abbia ben chiaro che il valore di un’impresa deve essere conservato e non distrutto, per quanto possano essere gravi gli addebiti tributari dei quali può essere chiamata a rispondere. Tocco questo punto, sia perché decisivo al fine di una reale equidistanza, sia perché mi consente di ripetere ancora una volta che il combinato disposto delle norme sanzionatorie tributarie e penali, specie in vista dei prossimi inasprimenti, produce effetti del tutto sproporzionati e irrazionali, distruttivi e sostanzialmente irrimediabili. Un giudice equidistante deve saper contemperare interessi e cogliere il valore dell’impresa, al di là della meritevolezza, talvolta, degli imprenditori, facendo uso sapiente del principio di proporzionalità che può essere risolutivo, soprattutto fino al momento in cui l’insieme delle sanzioni non sia del tutto ripensato, seguendo linee diverse da quelle preferite dal legislatore che in questi giorni si accinge a varare le norme di finanza pubblica per l’anno 2020.

Prof. Avv. Massimo Basilavecchia, Ordinario di diritto tributario nell’Università di Teramo, Presidente Comitato Scientifico Scuola UNCAT

21.04.2021

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