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La riforma e l’onere della prova

Prof. avv. Alberto Marcheselli

Processo Tributario

I. Sulla portata della riforma in genere

Nel procedimento amministrativo inquisitorio, dove cioè le indagini sono fatte direttamente dalla autorità chiamata a provvedere, l’onere della prova assume un significato composito e almeno duplice.

In primo luogo, si tratta di stabilire uno standard di diligenza di indagine: stabilire cosa e quanto il Fisco debba cercare per ben provvedere, detto altrimenti: quale è la istruttoria doverosa? In secondo luogo, a valle di questo, si tratta di stabilire come si debba provvedere se, effettuate indagini diligenti e diligentemente valutati gli esiti, permanga incertezza.

Quanto al primo aspetto, la individuazione dei doveri di indagine, secondo la giurisprudenza formatasi prima della riforma di cui alla legge 130/2022, l’ente impositore doveva ricercare le prove della evasione fiscale attuata mediante occultamento di proventi o simulazione o esagerazione di costi, dovendo, invece, il contribuente fornire la prova del suo diritto al rimborso o la applicazione di regimi speciali e favorevoli (tali ritenendosi agevolazioni ed esenzioni). Quanto al secondo aspetto, la regola di decisione del caso dubbio, la stessa giurisprudenza costruiva un sistema alquanto articolato, distinto a seconda del tipo di evasione accertata. In esito a tali doverose indagini, infatti, si riteneva che l’Agenzia delle entrate potesse accertare i proventi occulti solo positivamente provandone la percezione, mentre, per disconoscere i costi o le detrazioni non spettanti, sarebbe stato sufficiente raccogliere qualcosa di meno, non la piena prova, ma ragionevoli motivi per dubitare del diritto alla deduzione (c.d. onere di contestazione argomentata), dovendosi a quel punto attivare il contribuente . Attivazione del contribuente sempre e comunque necessaria, invece, per ottenere rimborsi e regimi favorevoli. In sostanza, tre regole diverse, per la prova, rispettivamente di: a) proventi nascosti (onere della prova dell’Agenzia); b) costi e detrazioni non spettanti (onere di contestazione argomentata all’Agenzia, e poi onere al contribuente): c) rimborsi o regimi favorevoli (onere della prova direttamente in capo al contribuente).

Con l’introduzione del comma 5 bis dell’art. 7 del d. Lgs. 546/1992 la situazione parrebbe mutare, permanendo l’onere di attivazione esclusiva del contribuente solo per la prova del rimborso, negli altri casi dovendosi sempre dar torto alla Agenzia delle Entrate, in caso di mancata prova. Parrebbe, pertanto, mutata la regola per quanto attiene detrazioni e deduzioni, nonché regimi favorevoli speciali. Si tratta di riforma la cui portata resta da valutare alla luce della elaborazione giurisprudenziale che verrà.

II. Sulla integrazione probatoria

In materia, è intervenuto il legislatore, emendando l’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, con una dizione che risulta sostanzialmente ambigua. Il comma 5-bis della disposizione prevede che l’amministrazione provi in giudizio le violazioni contestate nell’atto amministrativo e che il giudice decida sulla base delle prove emerse in giudizio. Per una parte la disposizione appare avere una portata pacifica e non innovativa e, cioè, che il giudice non può valorizzare prove che non siano state portate alla sua attenzione nel processo. Potrebbe, invece sorgere il dubbio se essa consenta che nel processo siano portate prove nuove (sia pure per la prova dei fatti già necessariamente allegati nel provvedimento). Come sopra si sottolineava, non vi è dubbio che ciò fosse (e sia tuttora) possibile per il contribuente, salvo l’effetto di eventuali preclusioni. È invece fortemente dubbio per la parte amministrativa.

Si deve escludere, ci pare, che la nuova normativa permetta all’Amministrazione di portare la prova della sua pretesa (solo) in giudizio, perché ciò condurrebbe ad approdi del tutto abnormi e asistematici, atteso che:

a. sposterebbe il baricentro della funzione tributaria dalla fase amministrativa a quella giurisdizionale, consentendo di trasformare la funzione tributaria da una funzione amministrativa sottoposta a controllo giurisdizionale in una funzione diffusa, ripartita tra amministrazione e giurisdizione (da un tributo che si accerta in sede amministrativa a un tributo che si accerta anche in sede giurisdizionale). È appena il caso di notare che tale conclusione risulterebbe preclusa anche da un argomento letterale: il comma 5 bis prevede che, se la prova manca, il giudice annulla l’atto: se la prova potesse essere portata anche in giudizio non sarebbe, a rigore, da annullare l’atto (se esso era legittimo anche senza prova, visto che – in tesi – la si può portare dopo, non può certo essere annullato ex post, la logica lo impedisce) ma dovrebbe più semplicemente dichiararsi non sussistente il debito fiscale;

b. mortificherebbe evidenti obiettivi di imparzialità e buon andamento della PA, che implicano la doverosità di un’istruttoria completa e diligente: se l’amministrazione non esercita o esercita male la sua funzione istruttoria, essa potrebbe comunque godere della salvezza della istruttoria giurisdizionale e condotte amministrativamente negligenti resterebbero senza sanzione (anche se in questi casi dovrebbe quantomeno procedersi a condanna alle spese della Amministrazione, anche se vittoriosa, atteso che, non avendo osteso prima le prove, avrebbe comunque provocato la lite, rendendola necessaria), con dispendio di energie e risorse pubbliche (ciò che potrebbe e dovrebbe essere accertato in modo concentrato ed efficiente nella sede amministrativa, attivando i relativi poteri di indagine, viene sfilacciato in una dispendiosa duplicità di fasi: una trascurata e negligente fase amministrativa, inefficientemente integrata da una fase giurisdizionale, che sarebbe stata inutile e scoraggiata nel modo corretto se l’amministrazione avesse ben operato);

c. mortificherebbe obiettivi di ragionevole utilizzo della giurisdizione, perché procurerebbe un consumo non necessario della preziosa risorsa giurisdizionale. Un tale assetto consentirebbe l’emissione di atti non (sufficientemente) provati, con effetto – tutt’altro che auspicabile e contrario agli stessi scopi della riforma – di moltiplicatore del contenzioso (che, al contrario, verosimilmente, non sarebbe attivato, o sarebbe severamente sanzionato e quindi disincentivato con una doverosa condanna alle spese del ricorrente quando il provvedimento fosse stato perfettamente corredato di prove, fin dalla fase amministrativa. Condanna del ricorrente che sarebbe, invece, evidentemente iniqua nel caso in cui egli impugni “al buio”, cioè senza aver potuto conoscere le prove a suo carico).

d. rinunciando a concentrazione ed efficienza, comporterebbe un sacrificio sproporzionato e irragionevole del diritto di difesa e azione avverso gli atti amministrativi, poiché costringerebbe il soggetto amministrato ad attivare comunque la risorsa giurisdizionale anche quando, se le prove fossero state correttamente raccolte e ostese, egli vi avrebbe rinunciato, onerandolo dei relativi tempi, costi e incertezze, non bilanciato da alcun vantaggio per l’interesse pubblico;

e. mortificherebbe le chances di una definizione extracontenziosa delle vertenze e di riduzione del carico giurisdizionale, poiché difficilmente si potrebbe trovare un accordo tra le parti quando l'istruttoria non sia completa e non sia possibile valutare a pieno “le carte” in possesso della controparte.

Per tutti questi motivi, l’unica interpretazione che appare sistematicamente corretta della normativa è quella per cui:

1.il provvedimento amministrativo deve essere per la sua validità corredato da prove fin dal momento in cui è emesso;

2.la relativa integrazione in giudizio deve essere consentita solo in casi estremi di impossibilità oggettiva. Una ipotesi di questi casi potrebbe essere quella in cui la legge modifichi il regime probatorio (per esempio, escludendo da un certo momento in poi la ammissibilità di una prova prima ammessa, ovvero, ammetta una prova prima esclusa, ovvero ancora modifichi la distribuzione dell’onere della prova. In tutti questi casi, e solo in questi, sarebbe equo consentire alla parte di integrare il suo apparato probatorio, perché è ragionevole che esso non sia completo e sufficiente sulla base delle regole sopravvenute, ma non per negligenza, bensì perché, appunto, sono cambiate le regole del gioco. Una situazione siffatta pare ricorrere proprio con la entrata in vigore del comma 5 bis dell’art. 7, per la parte in cui - per deduzioni e detrazioni - pare rovesciare l’onere della prova sulla Agenzia delle entrate così innovando l’assetto interpretativo consolidato: se tale regola si applica ai giudizi in corso l’integrazione probatoria dovrebbe essere consentita (v. infra);

3.il contribuente può offrire al giudice le prove a suo vantaggio, con l’unico limite di preclusioni eventualmente maturate. È appena il caso di notare che la asimmetria delle facoltà probatorie delle due parti in giudizio è del tutto fisiologica e rappresenta il correttivo e il bilanciamento, anche in chiave costituzionale, della asimmetria esistente nella fase amministrativa (ove la PA dispone di poteri inquisitori e la parte privata vi è soggetta). Si tratta di un meccanismo probatorio asincrono, ma equo e necessariamente asincrono per essere equo.

III. Sulla efficacia intertemporale

Il principio secondo cui graverebbe sul contribuente la prova (della deducibilità) dei “costi” dichiarati e sull’amministrazione quella dei maggiori ricavi, era raccordato dalla giurisprudenza alla regola civilistica secondo cui la parte che eccepisce l’inefficacia dei fatti costitutivi della pretesa attorea, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda (art. 2697, comma 2, c.c.). Tale costruzione, da un lato, appariva piuttosto malferma sul piano sistematico (essendo certamente errato sostenere che il “ricavo” sia il fatto costitutivo del debito fiscale e il “costo” un fatto modificativo: il fatto costitutivo è, infatti ed evidentemente, il reddito), ma sembra ora anche messa in grave crisi dal testo dell’art. 7, comma 5-bis, del D.Lgs. 546/1992 introdotto nel dalla Legge 130 del 2022.

La nuova norma, infatti, introduce una disciplina generale – fino ad ora inesistente – dell’onere della prova per la materia tributaria, speciale rispetto a quella stabilita per il diritto civile dall’art. 2697 c.c. e ritenuta applicabile dalla giurisprudenza: come si è accennato sopra, il nuovo “comma 5-bis” attribuisce ora in via generale all’ente impositore l’onere di provare la pretesa in giudizio ed impone al giudice l’annullamento ove una prova sufficiente manchi, eccettuando il solo caso del rimborso (ove l’onere permane al contribuente).

La dizione della disposizione appare chiara e innovativa, ma tale da porsi in rotta di collisione frontale, sul piano sistematico, con i pregressi orientamenti della giurisprudenza, che, come si vedrà, affermavano la sussistenza dell’onere del contribuente per tutte le riprese fiscali fondate su rettifica degli elementi negativi (es. difetto di inerenza, esistenza, competenza, ecc., ai fini di deduzioni o detrazioni). Anzi, a rigore, la disposizione pare sovvertire la giurisprudenza anche per quanto riguarda la prova di esenzioni e agevolazioni o regimi speciali: essa in via assolutamente generale afferma che spetta all’ente impositore la prova della pretesa fiscale avanzata nell’atto (senza distinzioni di fondamento), eccettuando le sole ipotesi di rimborso.

Posta questa premessa, assume notevole importanza pratica la questione di diritto intertemporale, perché per questa parte della riforma, l’art. 8 della legge non prevede una specifica disciplina transitoria. L’opinione maggioritaria è allora che tale disposizione, concernendo il diritto processuale e non quello sostanziale, si applichi ai processi in corso secondo il principio tempus regit actum: la norma disciplina la prova in giudizio e, quindi, secondo questo ragionamento, si applicherebbe alle attività processuali (e quindi alla valutazione delle prove) da compiersi dopo il 16 settembre 2022.

Ciò, per vero, determina qualche criticità. In effetti, un rovesciamento dell’onere della prova è una modifica idonea a sovvertire la prevedibile strategia delle parti in modo assai incisivo: è del tutto fisiologico che l’ente impositore ricerchi durante l’istruttoria amministrativa le prove rispetto ai fatti che sa di essere onerato di provare, non altri. La soluzione sistematicamente più corretta sarebbe pertanto quella che preveda che la nuova regola si applichi solo alle istruttorie non compiute (e quindi ancora integrabili). La soluzione legislativa appare allora disallineata. In questi limiti potrebbe apparire giustificata, se si tiene ferma la premessa della immediata applicazione, come correttivo per la sorpresa imprevedibile cui va incontro l’ente impositore, la possibilità di fornire solo in giudizio la prova del fatto imponibile, integrando l’istruttoria amministrativa, integrazione processuale che invece si rilevava sopra essere del tutto contraria ai principi nella generalità dei casi (v. sopra Parte III, sub 2). Diversamente, potrebbe forse mettersi in dubbio, sul piano più generale, la portata del principio della immediata applicazione delle regole processuali. Ciò, domandandosi se esso non dovrebbe applicarsi solo alle regole sullo svolgimento del procedimento (c.d. litis ordinatio) e non alle regole sulla decisione (litis decisio). In effetti, la soluzione diversa presenta dei potenziali rischi di lesione del diritto di difesa (e, meglio ancora, azione in giudizio), giacché la parte si vede messa nella necessità di fornire, nel procedimento successivo, una prova in un momento successivo a quello in cui sarebbe stato più semplice precostituirla. Lo spunto per queste considerazioni viene ancora una volta dalla dottrina classica (GRANELLI, Le presunzioni nell’accertamento tributario, in Boll. trib., 1981, 1652; v. anche SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto. Onere della prova, in Riv. dir. civ., 1957, I, 419), ma un possibile aggancio si trova anche nella giurisprudenza UE: La Commissione UE ebbe modo di denunciare, ai sensi dell’art. 169 del Trattato, lo Stato italiano alla Corte Giust. UE, per il fatto che esso, con l’art. 19, d.l. 30 settembre 1982, n. 688 (l. 27 novembre 1982, n. 873), sarebbe venuto meno agli obblighi comunitari, condizionando la possibilità di rimborso di tributi riscossi in violazione del diritto comunitario a un regime irragionevolmente vessatorio, anche per il fatto di prevedere retroattivamente la necessità di mezzi di prova non imposti nel momento in cui sarebbe stato possibile precostituirli. Tale profilo della questione non venne, tuttavia, esaminato dalla Corte Giust., solo perché assorbito dagli altri motivi del ricorso (Corte Giustizia CE, 24 marzo 1988, causa 104/86, in Raccolta, 1988, 1799).

Detto altrimenti, le regole sulla prova e sull’onere dovrebbero condividere le stesse esigenze delle regole sostanziali (quantomeno nel senso che la parte dovrebbe essere messa nelle condizioni di non dover recuperare dopo delle prove che non erano necessarie al momento dei fatti sostanziali), per arrivare alla conclusione che non si possa modificare il regime probatorio in giudizio di fatti già verificatisi (o di procedimenti amministrativi e istruttorie amministrative già concluse). Nel caso del processo tributario, ove l’ente impositore – come s’è detto – recupera (rectius, deve recuperare) le prove durante la fase amministrativa, sarebbe in effetti equo non considerare applicabili le modifiche ai regimi probatori (in senso lato, comprensibili della regola sull’onere) dopo che la fase amministrativa si è conclusa.

Fonte:VII Congresso Nazionale UNCAT - Camera Tributaria della Liguria

Autori: Prof. avv. Alberto Marcheselli, Presidente della Camera degli Avvocati Tributaristi della Liguria, Ordinario Diritto Tributario Università Genova, avvocato tributarista cassazionista

Avv. Francesco Mattarelli, avvocato tributarista cassazionista

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